Alessandro Campi GIOVANNI GENTILE E LA R.S.I.
Morte necessaria di un filosofo
ASEFI Rdizioni. Collana La Terziaria. I edizione gennaio 2001 - Pag.
152 - Euri 8,78
Campi, Alessandro
ISBD:
Giovanni Gentile e la RSI : morte necessaria di - Milano : Terziaria, [2001]
- 152 p. ; 17 cm. - Quaderni
Collezione:
Quaderni
Livello
bibliografico: Monografia
Tipo
di documento:
Testo a stampa
Numeri:
ISBN - 88-86818-61-0
Nomi:
Campi, Alessandro
Gregor, A. James
Soggetti:
Gentile, Giovanni <1875-1944> - Atteggiamento
verso la Repubblica Sociale
Italiana<1943-1945>
Classificazione:
195 - FILOSOFIA OCCIDENTALE MODERNA. ITALIA
Paese
di pubblicazione:
IT
Lingua
di pubblicazione: ita
Localizzazioni:
BO0199 - Biblioteca comunale - Imola - BO
BO0304 - Biblioteca comunale
dell'Archiginnasio - Bologna - BO
BO0305 - Biblioteca comunale
di Storia della Resistenza - Bologna - BO
FI0098 - Biblioteca nazionale
centrale - Firenze - FI
MI0185 - Biblioteca nazionale
Braidense - Milano - MI
MI0339 - Biblioteca delle
Civiche raccolte storiche. Museo del Risorgimento - Milano - MI
MO0089 - Biblioteca Estense
- Modena - MO
PD0368 - Biblioteca del
Dipartimento di diritto comparato dell'Universita' degli studi di Padova
- Padova - PD
PG0109 - Biblioteca comunale
Augusta - Perugia - PG
RA0030 - Biblioteca di storia
contemporanea - Ravenna - RA
RA0069 - Biblioteca dell'Istituto
storico della Resistenza - Alfonsine - RA
RM0210 - Biblioteca della
Fondazione Lelio e Lisli Basso - Roma - RM
RM0267 - Biblioteca nazionale
centrale Vittorio Emanuele II - Roma - RM
RM0521 - Biblioteca dell'Istituto
della enciclopedia italiana Giovanni Treccani - Roma - RM
VI0005 - Biblioteca Archivio
Museo - Bassano del Grappa - VI
Codice
identificativo: IT\ICCU\RAV\0727076
Il libro. Dopo circa sessant'anni dalla sua morte violenta - avvenuta
il 15 aprile 1944 in piena guerra civile - il nome di Giovanni Gentile
continua ad essere al centro di discussioni appassionate e di polemiche.
Per quali ragioni è stato ucciso il filosofo ufficiale del fascismo?
Chi ha deciso o ispirato l'attentato? Chi lo ha eseguito?
Il testo, più che dare una risposta a tali quesiti, affronta
la complessa trama di motivazioni e di ragioni - ideali, congiunturali,
storico-culturali, caratteriali - che, dopo l'8 settembre spinse Gentile
ad aderire alla Repubblica sociale italiana. Una scelta che lo avrebbe
condotto ad un consapevole martirio.
L'autore. Alessandro Campi (1961) è Ricercatore di Storia delle
dottrine politiche dell'Università di Perugia, dove insegna Filosofia
politica. Tra i suoi lavori, Modelli di storia costituzionale in Giuseppe
Maranini (Roma, 1994), Schmitt, Freund, Miglio. Figure e temi del realismo
politico (Firenze, 1995), Destra/Sinistra. Storia e fenomenologia di una
dicotomia politica (Roma, 1997, in collaborazione con A. Santambrogio),
Mussolini (Bologna, 2001).
***
Il Fascismo morì con l'assassinio di Giovanni Gentile, l'ideologo
neo-hegeliano dell'attualismo. Lo sostiene in una interessante pubblicazione
(Giovanni Gentile e la Rsi), che farà discutere a sinistra, ma soprattutto
a destra, Alessandro Campi, ricercatore all'Università di Perugia.
Il fascismo non è morto il 25 luglio del 1943, e nemmeno il
25 aprile del 1945 con l'uccisione del suo capo, il fascismo è morto
il 15 aprile del 1944 con l'omicidio di Giovanni Gentile, dell'intellettuale
cioè che aveva fornito al fascismo una compiuta ossatura ideologica,
una base morale, un fondamento razionale, un'ideologia e una dottrina coerenti
poggiate sulla teoria filosofica neo-hegeliana dell'attualismo. Colpire
dunque Gentile significò, in sostanza, colpire il fascismo come
ideologia, colpire la radice da cui il movimento di Mussolini, che conosceva
le opere del filosofo siciliano sin dal 1908, era germinato. Insomma, come
Alessandro Campi sostiene nel suo "Giovanni Gentile e la Rsi"
l'assassinio di Gentile fu "necessario", iscritto nella logica
delle cose, e soprattutto coerente e pienamente comprensibile in un contesto
di guerra civile.
"I capi della futura Italia antifascista avevano bisogno - scrive
Gregor nell'introduzione al libro di Campi - di un simbolo importante che
denotasse una cesura storica e politica". La morte di Gentile sarebbe
stato il segnale della definitiva scomparsa del fascismo, una "morte
necessaria - come scrive appunto Campi - in virtù del ruolo preponderante
che in condominio con Croce, Gentile aveva svolto in Italia nel campo della
cultura.
Il progetto metapolitico di Togliatti, finalizzato ad imprimere al
partito comunista italiano una base ideologica nazionale e a sostituire
l'egemonia crociano-gentiliana con quella marx-gramsciana, rendeva inevitabile,
come infatti avvenne, dapprima la liquidazione morale e fisica di Gentile
e poi quella intellettuale e morale di Croce, vale a dire dei dioscuri
della tradizione dell'idealismo italiano, assimilato tout court al fascismo
e alla guerra".
E l'assimilazione dell'attualismo al fascismo non è affatto
così forzata, in realtà si potrebbe dire che con il fascismo
di Mussolini, all'attualismo gentiliano spuntarono le gambe per incedere
nella storia, trovando "il modo di esprimersi in chiave concretamente
politica... secondo un percorso che conduce dall'immanentismo (secolarismo)
proprio di ogni filosofia idealista al disegno riformatore in senso religioso
e spiritualista".
Se si guarda all'uccisione di Gentile secondo quest'ottica - l'ottica
appunto della guerra civile e della morte necessaria di chi, prendendo
una precisa posizione, vi aveva preso parte - appaiono decisamente pelose
e prive di qualsiasi serio sostegno logico le posizioni di chi, nella destra
neofascista del dopoguerra, ha deprecato per anni l'omicidio di Gentile,
parlando di un gesto efferato, di un'azione di gratuita crudeltà.
Argomentazioni maldestre che Campi non ha mancato nel suo lavoro di mettere
in luce: "Da un lato il neofascismo italiano si è battuto perché
quella svoltasi in Italia nel biennio 44-45 fosse riconosciuta storicamente
e storiograficamente alla stregua di una guerra fratricida, dall'altro
non ha mai colto il carattere consequenziale, tragicamente necessario,
del tutto coerente con la natura propria di ogni guerra civile, dell'assassinio
di Gentile o dell'episodio di Piazzale Loreto, rispetto ai quali esso ha
invece invocato un metro umanitario, ha fatto appello alla pietas e al
sentimento della clemenza e del perdono".
Non c'è da stupirsi se questo libretto di Campi, assieme al
suo "Mussolini" che sta uscendo in questi giorni nelle librerie
per i tipi del Mulino, provocherà a destra e a sinistra (ma soprattutto
a destra) reazioni scontrose. Siamo infatti di fronte a un metodo e ad
un approccio a certi temi insolito in un paese come il nostro: Campi, che
per le edizioni Pellicani ha curato numerosi studi sul fascismo, ha sempre
utilizzato un criterio rigorosamente scientifico, avalutativo e tassonomico
nelle ricerche che ha compiuto, criterio che inevitabilmente finisce col
togliere sostanza alle argomentazioni che da una parte e dall'altra dei
due fronti intellettuali della guerra civile italiana hanno paralizzato
ogni progresso nel campo degli studi sul fascismo, cioè a dire su
vent'anni della nostra storia nazionale.
UNOINPIU' Febbraio 2001 Riccardo Paradisi
***
Sine spe ac metu "senza speranza né timore" è
il motto con cui si apre il libro Comunità, Europa, Impero di Francesco
di Marino, pubblicato all'inizio del 2001 nell'ambito dei Quaderni di Terziaria,
ma si adatta altrettanto bene ad un altro recente saggio della stessa collana:
Giovanni Gentile e la RSI di Alessandro Campi. Infatti, anche se il primo
testo va alla ricerca di prospettive per il futuro, mentre il secondo è
dedicato alla ricerca storica, entrambi gli autori sostengono l'importanza
di saper scegliere, individualmente e collettivamente, strade coraggiose
in quei momenti in cui il senso dell'onore e l'orgoglio impongono di reagire
alle umiliazioni, prescindendo da eventuali considerazioni pratiche sulle
possibilità di successo.
Fu senz'altro in un quadro segnato dal disincanto e dal fatalismo,
da un senso di morte e di sventura, che si collocò la scelta gentiliana
di aderire alla Repubblica sociale italiana. Alle molteplici ragioni di
questo passo, intrapreso dal filosofo del fascismo nella piena consapevolezza
del fatto che le sorti del conflitto volgevano ormai al peggio, è
dedicato il saggio di Campi. L'autore, analizzando i motivi storici, congiunturali,
culturali, ideali e caratteriali che contribuirono alla decisione di Gentile,
traccia un quadro piuttosto complesso, riassumibile in sei punti.
1) Gentile volle dimostrare la sua coerenza politica e intellettuale
a quei fascisti che lo avevano accusato di opportunismo per la corrispondenza
avviata con Leonardo Severi, ministro dell'educazione nel Governo Badoglio.
2) Fermamente convinto della indissolubilità di pensiero e azione,
prendendo posizione nel momento più difficile egli manifestò
la sua contrarietà al "sofisma diabolico" che fa gettare
ogni dovere dietro le spalle.
3) Per Gentile negare il fascismo nell'ora estrema avrebbe significato
smentire intellettualmente se stesso: sarebbe stata, egli scrisse alla
figlia Teresina, una "vigliaccheria equivalente alla demolizione di
tutta la mia vita".
4) Venendo a motivazioni meno soggettive, sicuramente condivise da
Gentile con molti altri italiani che aderirono alla RSI, va anzitutto ricordato
il suo legame di amicizia e fedeltà nei confronti di Mussolini.
5) Nella convinzione che l'armistizio rappresentasse un tradimento
dell'alleato tedesco, diveniva inoltre indispensabile "negare la legittimità
della resa per riaffermare il diritto ad esistere dell'Italia, che potrà
magari soccombere, ma con onore".
6) Pur deciso sostenitore della "necessità della lotta
giusta", Gentile si augurava infine, assumendo la presidenza della
risorta Accademia d'Italia, di poter contribuire "alla smobilitazione
degli animi" ed evitare che la guerra civile culminasse in un rovinoso
bagno di sangue.
Il 15 aprile 1944 Giovanni Gentile, simbolo massimo del disegno culturale
fascista, veniva assassinato in circostanze mai totalmente chiarite. Morì
"tenendo alta la bandiera della dignità, alla quale nessuno
vorrà mai sopravvivere" secondo quanto aveva raccomandato nel
Discorso agli italiani da lui pronunciato a Roma nel 1943.
La grandezza postuma di Gentile non sta solo nella sua statura di pensatore
e uomo di cultura, ma anche nell'aver tenuto ferme, sino alle conseguenze
estreme, le proprie idee: una coerenza che per quanti si schierano a destra
dovrebbe essere di esempio anche oggi, nel momento in cui, come si dice
in una bella canzone della Compagnia dell'Anello, "stiamo buttando
alle ortiche, per inseguire il potere, la nostra Fede più antica
e le ragioni più vere".
IL BARGELLO - Trieste - Aprile/Maggio 2001)
***
UN FILOSOFO SCOMODISSIMO. Tra i libri che Gianfranco Monti continua
coraggiosamente (parlo qui di coraggio nell'esposizione economica, piuttosto
raro) a pubblicare con l'edizione "Terziaria" è di particolare
interesse il tema sulla morte "necessaria" di un filosofo sviluppato
da Alessandro Campi in Giovanni Gentile e la RSI.
Campi ragionevolmente sfata il mito secondo cui non si dovrebbero uccidere
i professori, come se in una guerra civile fosse più giusto ammazzare
soltanto gli allievi, i ragazzi. Con minor ragione, a mio avviso, riecheggia
invece la tesi lanciata da Luciano Canfora secondo cui tra i mandanti dell'assassinio
vi sarebbero state anche frange del fascismo repubblicano più immerse
nel clima della guerra civile. Canfora ha retrodatato alla RSI l'inflazione
delle scorte negli "anni di piombo", per accusare il fascismo
estremistico fiorentino d'aver fatto mancare la scorta a Gentile mentre
la sua era una morte annunciata. Ma i fascisti, obbligati al coraggio come
11° comandamento, non usavano scorte. Pavolini attraversava la pianura
padana col solo autista. Resega, federale di Milano, fu ammazzato sotto
casa mentre attendeva il tram per recarsi nella più importante federazione
d'Italia: non girava scortato e non usava la macchina di servizio di cui
disponeva Gentile. E' purtroppo vero che molti fascisti si lasciarono trascinare
come in un Paese nemico nella pratica delle rappresaglie, ma dovrebbe essere
d'altra parte evidente che a volere la guerra civile furono gli antifascisti.
Ai fascisti sarebbe assai più convenuto poter continuare a comandare
tranquilli.
Correnti di fascismo antigentiliano c'erano sempre state. L'accusavano
d'essere più un liberale che un vero fascista e nella RSI continuarono
polemiche di questo genere da parte del fascismo estremistico, ma da qui
a volerlo morto, come insinua canfora, ci corre. Che i fascisti per faide
interne si ammazzassero tra di loro è luogo comune usato anche per
Ghisellini a Ferrara. In realtà i partigiani si accanivano con i
miti, obiettivo tra l'altro più facile, proprio perché ostacolavano
la guerra civile. Campi in compenso ha recuperato un'osservazione di Gennaro
Sasso, che in suo libro-intervista del 1993 aveva scritto: "Ho cominciato
a pensare che l'uccisione di Gentile potrebbe essere stata la prova generale
di quella di Mussolini; e che la ragione stesse nella volontà inglese
di togliere di mezzo i principali personaggi del fascismo per contrastare
la diversa e persino opposta tendenza degli americani a conservarli in
vita e quindi a sottoporli a processo. Uccidere Gentile significava che,
a fortiori, anche Mussolini doveva esserlo; e uccidere quest'ultimo significava
stroncare alla radice l'idea stessa di processi. Insomma, nel condannare
a morte Gentile e Mussolini, gli inglesi avrebbero criticato coi fatti,
e avant lettre, la mentalità di Norimberga".
Al movente inglese Campi aggiunge quello dei comunisti, che ne furono
gli esecutori materiali: si preparavano a raccogliere l'eredità
di Gentile come grande organizzatore di cultura e non c'è eredità
senza il morto. Dal bel saggio di Paolo Mieli "Una rilettura liberale
di Giovanni Gentile" in Le storie la storia (Rizzoli) Campi raccoglie
infine il sospetto che il filosofo sia stato ucciso "perché
sapeva troppo" sul collaborazionismo degli intellettuali antifascisti
negli anni di un regime durante il quale poterono continuare a campare
scrivendo. Sospetto eccessivo, che Mieli ricava a sua volta dallo scrittore
cattolico Vittorio Messori. Secondo questa interpretazione - conclude Campi
- la morte di Gentile, più che necessaria, potrebbe dirsi "utile
ed opportuna" per toglierli d'imbarazzo. Non ne sono stati direttamente
i mandanti, ma quando è stato messo a tacere si sono fregati le
mani.
AREA N. 58 - Maggio 2001 Giano Accame
***
IL SACRIFICIO DEL FILOSOFO. Nel suo ultimo articolo, apparso su
"Civiltà Fascista" dell'aprile 1944, Giovanni Gentile
si domandava: "E' possibile una realtà politica di cui all'uomo
sia dato essere semplice spettatore?" Lui una risposta se l'era già
data da qualche mese. Da quando, cioè, aveva scelto di aderire alla
Repubblica Sociale, di assumere la presidenza dell'Accademia d'Italia,
di combattere, in prima linea e sottoposto al fuoco congiunto degli antifascisti
che lo odiavano e di certi fascisti intransigenti che diffidavano della
sua "volontà pacificatrice", una battaglia che sapeva
perduta. Si era dato una risposta, Gentile, netta e definitiva: ed era
ben cosciente che quel suo "si" estremo a Mussolini e al fascismo
rappresentava una condanna a morte, una "sentenza" che sarebbe
stata immediatamente pronunciata e resa poi esecutiva dai "gappisti"
fiorentini il 15 aprile 1944.
Ora, Alessandro Campi, in un volumetto ricco di intelligenza storica,
dunque "aperto" alla complessità di eventi e personaggi,
idee e scelte ("Giovanni Gentile e la RSI - Morte necessaria di un
filosofo") ci mostra come l'ultimo approdo gentiliano sia la mèta
tragicamente coerente e tragicamente inevitabile di un percorso intellettuale
ed esistenziale. Giovanni Gentile "doveva" fare quel che fece;
e in questo "dover essere", nel pensiero e nella storia,, c'era
inscritta anche la "necessità" della morte. Scrive Campi:
"Nel fascismo, come uomo e come intellettuale, Gentile aveva investito
tutto di sé: con esso doveva finire, anche "fisicamente",
cosa della quale peraltro egli non ha mai dubitato (…).Gentile - visto
come simbolo massimo dell'impegno con cui il fascismo aveva perseguito
il proprio disegno politico-culturale - doveva essere ucciso: per chiudere
con il fascismo, troncando sul nascere qualsiasi ipotesi di continuità
e per consentire l'inizio di una diversa fase della storia italiana".
Campi ha ragione. Ed ha ragione quando, dopo aver scavato tra le idee,
le passioni, le emozioni ecc. di chi scelse Salò (si vedano i capitoli
"Le scelte della RSI", pp 35-46 e «Gli intellettuali e
la RSI", pp 137-141), osserva nella sua conclusione: "La pacificazione
- che altro non è che la visione completa e sufficientemente condivisa
del proprio passato storico - non si raggiunge attraverso la sintesi delle
memorie, che sovente equivale a una reciproca elisione, ma sul piano dell'analisi
e del giudizio, che per essere storicamente efficaci debbono rifuggire
ogni moralismo ed ogni falsa "pietas".»
Indubbiamente, la storia è anche assunzione di "responsabilità"
criticamente ed operosamente "civile" di fronte a chi fece scelte
"responsabili". Giocando in quelle il presente, il passato, il
futuro; la rappresentazione di sé e del proprio pensiero; e l'immagine
che gli altri hanno di noi, la vicenda personale, il magistero. Forse la
storia è necessariamente "tragica" quando ci entriamo
dentro con tutto il peso della nostra mente, ma esponendo, senza paura,
anche il corpo; e chi la scrive davvero "sine ira et studio",
e dunque per andare avanti, e dunque ancora in vista di memorie "condivise",
ha l'obbligo di registrare l'intensità drammatica di affermazioni
e negazioni personali e pagate di persona, senza smussare gli angoli, senza
addolcire. Ecco, allora, la straordinaria, fatale "dignità"
della scelta gentiliana. Carica di senso dell'onore, di pessimismo, di
volontarismo, di teso, accorato impegno testimoniale. L'azione di Gentile
è davvero filosofia in atto; la ricerca speculativa esce dalle biblioteche
e dalle accademie, e si tuffa nel ribollire della vita, scommettendo sulla
missione del dòtto; organizzare la Città, garantire la continuità
dei suoi ordinamenti, impedire, impedire che il nemico la invada violando
altari e focolare, gridare con forza le parole della concordia in mezzo
agli odi faziosi che ne dilaniano le carni e ne avvelenano il sangue.
Gentile, se vogliamo, sceglie l'enfasi dei toni alti - ma sono alti
gli scopi, per quanto oggi possano apparire incomprensibili o patetici
nel minimalismo rampante - per il suo azzardo di uomo e di intellettuale
militante.
Poteva sottrarsi; interviene. Dopo essere stato il "pensatore
principe" del Regime, tra la fine degli anni Trenta e il 1943, aveva
vissuto e operato "pressoché esclusivamente all'interno della
sua cerchia culturale e universitaria sulla quale dominava con il piglio
del patriarca e del "dominus intellettuale". Concentrava le sue
energie sulla Scuola Normale Superiore di Pisa, della quale, nell'ottobre
del '37, era tornato ad essere direttore, e su diverse iniziative accademiche
ed editoriali, prima tra tutte l' "Enciclopedia Italiana".
Era amico fedele di Mussolini, ma di sicuro la legislazione razziale
era lontanissima dal suo idealismo anti-naturalistico, né la scelta
di entrare in guerra a fianco della Germania gli era parsa carica di motivazioni
nazionali, patriottiche, civili, culturali, ecc. come quella che aveva
animato le battaglie interventistiche nel lontano 1914. Ma allorché
il conflitto europeo diviene mondiale e sembra avere i contorni di una
guerra di religione i cui esiti incideranno per decenni sugli umani ordinamenti,
Gentile non esita a riaffacciarsi alla scena politica. Lo fa in "grande"
e in un momento "scomodo": è il 24 giugno del '43, le
sorti della guerra volgono verso il peggio, tra poco più di due
settimane gli Alleati sbarcheranno in Sicilia, tra un mese il voto del
Gran Consiglio affosserà Mussolini. In questo scenario torbido,
Gentile pronuncia in Campidoglio il suo appassionato "Discorso agli
Italiani". Non c'è nessun trionfalismo, ma un ammonimento forte
al coraggio, al senso dell'onore e della dignità, all'impegno che
tutti deve unire nel tenere alta la bandiera della Patria perché
non vengano meno unità e continuità.
Gentile ha scelto. L'identità fascismo-nazione è per
lui un elemento indiscutibile. Certo, non vuole (né si attende)
lacerazioni con la Monarchia e non getta a mare le sue convinzioni sabaude
il 25 luglio. Vorrebbe essere leale nei confronti del Re e di Badoglio,
senza che nessuno lo costringa a rinnegare Mussolini e il Fascismo. Ma
Gentile è ormai un "nemico" per tutti gli antifascisti,
moderati o estremisti che siano. E' il filosofo "ufficiale" del
Fascismo, ha contribuito a consolidare la tirannide, ha plasmato le coscienze
dei giovani perché si inchinassero alla dittatura, ha confermato
il suo mussolinismo nel famigerato "Discorso agli Italiani".
Prima ancora che Concetto Marchesi gridi con violenza la sentenza di
morte, Gentile è condannato. Vorrebbe, ancora, vorrà, anche
in seguito, essere uomo della concordia perché la Patria che si
lacera è una Patria che va in rovina: non gli è possibile.
La sua idea, che identifica l'Italia col Fascismo e vede nel Fascismo il
compimento politico, civile e "filosofico" della storia d'Italia,
seguita di secolo in secolo nei personaggi che meglio la rappresentarono
e che con più intelligenza perseguirono il disegno "nazionale"
(si legga, ad esempio, il volume dedicato a Bertrando Spaventa con cui
la Casa Editrice fiorentina "Le Lettere" ha portato a termine
la pubblicazione dell' "Opera Omnia" gentiliana); questa sua
convinzione, sempre più salda man mano che si approssima la fine,
è respinta con rabbia da chi ha scelto l'antifascismo. Dunque, anche
da molti che gli sono stati vicini negli studi e nella ricerca - si pensi
a Cantimori, a Calogero, a Capitini, a Codignola, a Bianchi Bandinelli
- e che ora, se non si augurano la sua morte fisica, di sicuro si battono
per la sconfitta definitiva delle sue idee. E queste appaiono, in un modo
sconcertante, più che mai tenaci, anche e soprattutto nella fedeltà
a Mussolini.
"O l'Italia si salva con lui - par che abbia detto Gentile a Biggini,
ministro dell'Educazione nazionale, dopo aver incontrato sul Garda il Duce
nel novembre del '43 - o è perduta per molti secoli".
Dunque, lealtà ostinata. E il cuore gettato contro ogni ostacolo.
Fino alla morte "necessaria". E qui Campi ripropone, non per
gusto della polemica, ma per volontà di "capire" e dunque
tutto "esplorare", i termini di una questione che va affrontata
senza pregiudizi: oltre le mani armate dei partigiani che ammazzarono Gentile,
c'erano cuori di Fascisti "armati" contro di lui? C'era un estremismo
saloino che vedeva nel filosofo un barone del fascismo littorio, nemico
del radicalismo rivoluzionario? Sono domande che possono dispiacere a chi
vive di indiscusse certezze: il dovere dello studioso è quello di
porle perché la verità storica non ha nulla da guadagnare
né dalla fazione né dalla deformazione né dalla rimozione.
IL SECOLO D'ITALIA 20 Marzo 2001 Mario Bernardi Guardi
***
FILOSOFIA DI UNA MORTE ANNUNCIATA Giovanni Gentile aveva una visione
particolare della morte. I comuni mortali hanno paura della morte perché
l'avvertono come qualcosa che c'è. Il filosofo dell'attualismo sosteneva
che la morte "è paurosa perché non esiste, come non
esiste la natura, né il passato, come non esistono i sogni".
C'è l'uomo che sogna, diceva Gentile, ma non le cose sognate. Sarà
anche vero, e molto suggestivo, ma resta il fatto che la tragica morte
di Giovanni Gentile, ucciso il 15 aprile del 1944 da mano ignota, non è
un sogno. Tutt'altro. Per cinquant'anni è apparsa come un incubo
di cui liberarsi. In quella morte non c'è solo la tragica fine di
un uomo di pensiero ma anche d'azione, c'è un idea dell'Italia,
un nodo, forse un ingorgo storico di una nazione ancora non in pace con
se stessa. I militanti comunisti fiorentini aderenti ai Gap non vollero
uccidere solo un uomo, ma il suo pensiero. Ma se sulla morte aveva forse
torto, sulla natura del pensiero Gentile aveva ragione: "Il pensare
è vivere vita immortale". Così, ad oltre mezzo secolo
dall'assassinio di Giovanni Gentile, la "morte del suo pensiero"
si presenta ancora come una questione vitale per chi sente di voler essere
italiano.
Quando la notizia della morte di Gentile arrivò a Benedetto
Croce, il filosofo napoletano disse: "Ora ammazzano anche i filosofi".
Ma l'assassinio di Gentile non avvenne per caso, non fu un incidente di
percorso, un fatto che poteva accadere o che poteva non accadere. La sua
morte fu necessaria.
Alessandro Campi, allievo di Ernesto Galli della Loggia, sulla "morte
necessaria" del filosofo dell'attualismo ha scritto un bel libro pubblicato
dall'Asefi intitolato Giovanni Gentile e la RSI; morte necessaria di un
filosofo.
"Quella di Gentile - scrive Campi - fu una morte in larga parte
annunciata, della cui inevitabilità fu consapevole lo stesso filosofo,
e che ebbe numerosi mandanti ed ispiratori, più o meno occulti e
consapevoli: i servizi segreti inglesi, la massoneria, l'ala comunista
e insurrezionale dell'antifascismo, certe frange del fascismo repubblicano,
in una trama di interessi e di convergenze che ha finito per stendere un
velo di mistero sull'uccisione di Gentile".
Ma se la morte di Gentile fu annunciata, tanto che lo stesso filosofo
avvertiva il momento della fine, quale ne fu il movente? La pacificazione.
Il filosofo del fascismo, che aveva legato il suo nome non solo a una filosofia
e al regime, ma ad una visione storiografica dell'Italia che aveva il suo
punto di approdo nel fascismo, aderì alla Rsi quando vide la "patria
in pericolo" e la guerra civile alle porte. La sua morte "segnò
la fine" dei tentativi di pacificazione nazionale. Ma alla morte di
Gentile seguì anche la "morte" del suo antico amico Benedetto
Croce. La "morte necessaria" di Gentile, infatti, ha a che vedere
anche con il ruolo egemonico che lui, con Benedetto Croce, ebbe nella cultura
italiana.
"Per comprendere questo punto - scrive Campi - è necessario
riferirsi al progetto perseguito, a partire dal 1944, dal leader comunista
Palmiro Togliatti. Quest'ultimo, in linea con la cosiddetta "svolta
di Salerno", aveva compreso l'importanza di dare al Partito comunista
italiano una base ideologica nazionale, in modo da farne un protagonista
della ricostruzione democratica dell'Italia. Ma per conseguire questo obiettivo
si resero appunto necessarie la liquidazione fisica e morale di Gentile
e quella intellettuale e morale di Croce, vale a dire della tradizione
dell'idealismo italiano, assimilata tout court al fascismo e alla reazione.
Solo così fu possibile assegnare al marxismo una valenza nazionale,
tale da permettere la sostituzione dell'egemonia crociana-gentiliana con
quella gramsciana e l'apertura quindi, di una fase politico-culturale nuova".
Tutto questo in disprezzo non solo della storia d'Italia e del pensiero
italiano, ma della stessa intelligenza di Antonio Gramsci.
IL SECOLO D'ITALIA 10 Marzo 2001 Giancristiano Desiderio
***
Giovanni Gentile e il destino del Novecento. Tra pochi giorni sarà
in libreria l'ultimo libro di Alessandro Campi, "Giovanni Gentile
e la Rsi", Asefi editoriale, Milano, 152 pagine, lire 17mila. Ideazione.com
pubblica in anteprima il capitolo "Morte necessaria di un filosofo".
Nella cultura e nella politica italiane, la morte violenta di Gentile
è stata oggetto continuo di rimozioni e sensi di colpa, di imbarazzi,
di veri e propri silenzi, di reticenze. Sia le giustificazioni sia le condanne
sono spesso apparse ipocrite, volutamente ambigue, sono state quasi sempre
improntate al moralismo e ad una certa retorica, quando non ad una vera
e propria incomprensione delle più profonde implicazioni di tale
morte, con quelle modalità e in quel contesto. Sul piano storico,
essa ha altresì determinato lunghe polemiche relativamente ai mandanti
ed agli esecutori del delitto: se gli autori materiali dell'agguato furono,
senza alcun dubbio, militanti comunisti fiorentini aderenti ai Gap, tra
gli ispiratori si sono via via indicati i servizi segreti inglesi, la massoneria,
l'ala comunista ed insurrezionale dell'antifascismo, gli ambienti dello
squadrismo pavoliniano e più genericamente del fascismo repubblicano
più estremista, in un gioco di convergenze e di intrecci che ha
finito per stendere un velo di mistero sull'assassinio del filosofo ufficiale
del fascismo. Manca, a tutt'oggi, una versione della morte di Gentile,
e delle vicende che la determinarono, che possa dirsi definitiva ed ufficiale,
chiara e documentata in tutti i diversi aspetti. L'annuncio di clamorose
rivelazioni - fatto a suo tempo, ad esempio, da Cesare Luporini - non ha
avuto alcun seguito. Molti protagonisti hanno, a più riprese, detto
la loro, in maniera più o meno completa; altri, più semplicemente,
hanno taciuto o hanno preferito dimenticare.
L'uccisione di Gentile è stata spesso considerata come un atto
di barbarie, come un gesto crudele ed inutile, compiuto ai danni di un
uomo generoso, mite e leale, di un "povero vecchio" indifeso
ed inerme. Un vero proprio martirio, secondo alcuni, non giustificabile
nemmeno nel contesto di una pur sanguinosa guerra civile, vista l'alta
personalità intellettuale dell'ucciso. Gli unici che, cogliendo
appieno il significato storico-epocale della morte di Gentile, sin dal
giorno seguente la notizia dell'agguato non si sono mai risparmiati, rivendicando
a sé, pubblicamente, il merito di quel delitto politico, sono stati
i comunisti - Togliatti in testa, prontissimo nel diffondere a titolo di
rivendicazione, nel numero di luglio di "Rinascita", la sentenza
di morte apparsa a marzo nel periodico clandestino del Pci "La Nostra
Lotta" in calce all'articolo che Concetto Marchesi aveva già
pubblicato, qualche tempo prima, su altri organi di stampa e con il quale
l'illustre latinista aveva duramente stigmatizzato la politica di conciliazione
nazionale perseguita da Gentile.
Dell'eliminazione di Gentile - l'unico intellettuale in grado di dare
prestigio e legittimità al fascismo salotino, impegnatosi per di
più in una campagna per la pacificazione e la moderazione sgradita
sia al fascismo oltranzista sia all'ala insurrezionale della resistenza
- si è detto che essa fu un epilogo a dir poco da prevedere e da
mettere in conto, tragico quanto si vuole ma perfettamente coerente con
le tensioni di quel periodo e con la personalità stessa del filosofo,
talmente ingombrante ed in vista da costituire un bersaglio pressoché
perfetto e sin troppo facile, abbattendo il quale si sarebbe inferto un
duro colpo all'intera impalcatura della Rsi. Colpire Gentile era come colpire
quello che nel fascismo ancora restavo di nobile e di sano. Si trattò,
al dunque, di un atto di guerra. Ciò non toglie che sul piano generale
- simbolico e storico-filosofico - quella di Gentile possa essere definita
una morte, non solo annunciata e attesa, ma, in un senso più profondo,
"inevitabile e necessaria", soprattutto allorché ci si
soffermi non soltanto sulle cause immediate e sulle modalità dell'attentato,
probabilmente destinate a non essere mai del tutto chiarite, ma sui significati
e sul valore simbolico di essa, che ancora oggi la rendono così
diversa dalle molte altre morti che hanno caratterizzato la guerra civile
combattuta in Italia tra il 1944 e il 1945.
Morte necessaria in almeno due sensi, che riguardano ciò che
stava alle spalle di Gentile e ciò che sarebbe venuto dopo di lui,
un prima e un dopo della storia d'Italia dei quali egli fu, simbolicamente,
lo spartiacque. Per quanto concerne il primo significato conviene partire
dall'ipotesi che, sulle ragioni dell'assassinio di Gentile, ha avanzato
lo storico della filosofia Gennaro Sasso, per poi trarne alcune considerazioni
più generali sul rapporto tra giustizia e guerra e sul cosiddetto
"diritto di guerra". Ha scritto Sasso nel suo libro-intervista
"La fedeltà e l'esperimento": ho cominciato a pensare
da qualche tempo a questa parte che l'uccisione di Gentile potrebbe essere
stata […] la prova generale di quella di Mussolini; e che la ragione stesse
nella volontà inglese di togliere di mezzo i principali personaggi
del fascismo per contrastare la diversa e persino opposta tendenza degli
americani a conservarli in vita e quindi a sottoporli a processo. Uccidere
Gentile significava, che "a fortiori", anche Mussolini dovesse
esserlo; e uccidere quest'ultimo significava stroncare alla radice l'idea
stessa di processi […]. Insomma, nel condannare a morte Gentile e Mussolini,
gli inglesi avrebbero criticato coi fatti, e avant la lettre, la mentalità,
come potrebbe dirsi, di Norimberga. Secondo questa suggestiva interpretazione,
l'assassinio di Gentile fu perpetrato - ammesso che i servizi segreti inglesi
abbiano avuto una parte in esso (un punto, quest'ultimo, sul quale convergono
numerose testimonianze) - nel segno della Realpolitik e del rifiuto della
visione giusnaturalistica che è stata invece propria degli statunitensi
per quel che attiene i crimini commessi dai capi del nazionalsocialismo.
Gentile fu ucciso nel segno di una concezione europeo-continentale, appunto
realista e per certi aspetti più umana e aliena da ogni moralismo,
del diritto di guerra, concezione che può ammettere, dopo la conclusione
del conflitto armato, solo due possibili strade nei riguardi del nemico:
il perdono (e quindi in un certo senso l'oblio) oppure la vendetta (e quindi
l'uccisione sommaria e senza processo di coloro che vengono ritenuti responsabili
di aver violato le regole del diritto internazionale), ma non l'aberrazione
giuridica di un tribunale penale di guerra composto unicamente dai vincitori
e le cui decisioni sono, per forza di cose, già tutte iscritte nell'esito
bellico. Se si ritiene, come scrive Sasso, che "l'idea del tribunale
dinanzi al quale i vinti sono trascinati in catene ad ascoltare, in sostanza,
una condanna già pronunziata, sta a mezza strada tra l'ingenuità
e l'ipocrisia", allora Gentile "doveva" essere ucciso. Quel
tanto (o quel poco) di nobilmente tragico che ha segnato l'epilogo del
fascismo italiano - così diverso dal clima nel quale si è
consumata la parabola del nazionalsocialismo, un misto di dissoluzione
nichilistica e di patetismo piccolo-borghese - è dipeso anche da
morti come quelle toccate a Gentile ed allo stesso Mussolini, uccisi entrambi
nel furore della lotta in quanto simboli massimi di una tragedia alla quale
era impensabile che sopravvivessero. Da questo punto di vista, del tutto
incoerente è stato, per oltre cinquant'anni, il modo con cui il
neo-fascismo italiano ha vissuto e giudicato certe vicende: da un lato
esso si è battuto perché quella svoltasi in Italia nel biennio
'44-'45 fosse riconosciuta, politicamente e storiograficamente, alla stregua
di una guerra fratricida, dall'altro non ha mai colto il carattere consequenziale,
tragicamente necessario, del tutto coerente con la natura propria di ogni
guerra civile, dell'assassinio di Gentile o dell'episodio di Piazzale Loreto,
rispetto ai quali esso ha invece spesso invocato un metro umanitario, ha
fatto appello alla "pietas" ed al sentimento di clemenza e perdono.
In realtà, la grandezza postuma di Gentile non sta solo nella sua
statura di pensatore e di uomo di cultura, ma anche nel modo con cui ha
tenuto ferme, sino alle conseguenze estreme, le proprie idee e il proprio
progetto politico-culturale. Fatta salva l'umana pena dinanzi alla morte,
come immaginare Gentile nei panni dell'epurato, collocato forzatamente
a riposo, come avrebbe voluto Croce, o peggio trascinato alla sbarra "nella
forma più alta e solenne" a rispondere delle proprie colpe
dinanzi al paese intero, come avrebbe desiderato l'azionista Tristano Codignola?
Nel fascismo, come uomo e come intellettuale, Gentile aveva investito tutto
di sé: con esso doveva finire, anche fisicamente, cosa della quale
peraltro egli non ha mai dubitato, a dispetto del moralismo un po' ipocrita
con il quale è stata spesso giudicata la sua morte- soprattutto,
e non casualmente, proprio degli intellettuali.
Ma morte necessaria, quella di Gentile, anche per un secondo motivo,
che ha a che vedere con il ruolo egemonico, che egli, in condominio con
Benedetto Croce, aveva svolto in Italia, sul piano culturale, per oltre
trent'anni. Per comprendere questo punto è necessario riferirsi
al progetto perseguito, a partire dal 1944, dal leader comunista Palmiro
Togliatti. Quest'ultimo, in linea con la cosiddetta "svolta di Salerno",
aveva compreso l'importanza di dare al partito comunista italiano una base
ideologica nazionale, in modo da farne un protagonista della ricostruzione
democratica dell'Italia. Ma per conseguire questo obiettivo si resero appunto
necessarie la liquidazione fisica e morale di Gentile e quella intellettuale
e morale di Croce - vale a dire della tradizione dell'idealismo italiano,
assimilata tout court al fascismo ed alla reazione. Solo così fu
possibile assegnare al marxismo una valenza nazionale, tale da permettere
la sostituzione dell'egemonia crociano-gentiliana con quella gramsciana
e l'apertura, quindi, di una fase politico-culturale nuova. Gentile - visto
come simbolo massimo dell'impegno con cui il fascismo aveva perseguito
il proprio disegno politico-culturale - doveva essere ucciso: per chiudere
con il fascismo, troncando sul nascere qualunque ipotesi di continuità,
e per consentire l'inizio di una diversa fase della storia italiana. Suggestioni,
si dirà, ipotesi discutibili, che però lasciano intendere
come le vicende storiche non possano essere interpretate unicamente in
termini fattuali ed empirici, ma tenendo conto anche delle loro implicazioni
e dei loro significati simbolici e metastorici.
IDEAZIONE 6 febbraio 2001
***
QUANDO GENTILE SI RIFIUTO' DI SOSTITUIRE MUSSOLINI Che la morte di
Gentile facesse piacere a molti e da più parti (fascisti inclusi)
è risaputo. Che, però, i sicari comunisti abbiano agito per
conto terzi, secondo la fantasiosa ricostruzione di Luciano Canfora, è
inverosimile. I gregari sapevano a chi obbedire, e i capi avevano il loro
programma da attuare. L'uccisione di Gentile rientrava, probabilmente,
in quel programma comunista di creare nella Penisola una frattura insanabile,
in cui ebbe una parte abominevole anche l'attentato di via Rasella, con
le sue prevedibili conseguenze.
Un piccolo e denso volume di Alessandro Campi porta ora nuova luce
sul delitto richiamando, tra molte motivazioni psicologiche, anche un episodio
in sé secondario, ma indicativo di una potenziale evoluzione di
Gentile che, poi, non si realizzò. Precisamente verso la riconciliazione
nazionale. Si tratta di uno scambio di lettere con Leonardo Severi, che
aveva collaborato con Gentile quando questo era succeduto a Croce al ministero
della Pubblica istruzione. Croce aveva impostato una riforma della scuola
secondaria ma, dopo il '22, si ritirò, e indicò in Gentile
colui che sarebbe stato in grado di portar la riforma in porto. Accadde
che, durante i 40 giorni di Badoglio, Severi divenne a sua volta ministro
dell'Educazione nazionale, e Gentile non ebbe scrupolo a scrivergli per
perorare alcuni interessi universitari, come qualsiasi cattedratico influente
è solito fare. Ne ricevette una risposta sdegnata. Severi temeva,
evidentemente, di compromettersi.
Che cosa dimostra questo accostarsi di Gentile? Dimostra che la sua
fedeltà era istituzionale, non solo personale verso Mussolini. Poteva,
infatti, coesistere con il nuovo regime. Dopo tutto le dimissioni le aveva
date Mussolini stesso e la sfiducia era venuta dal Gran consiglio: Gentile
non avrebbe tradito nessuno prendendone atto, come la stragrande maggioranza
degli italiani. Severi motivò il suo sdegno con "l'infelice
discorso" di Gentile in Campidoglio, del 24 giugno. Ricordo perfettamente
quel discorso. Pur commissionato dal segretario del Pnf, trascendeva talmente
le ragioni della guerra e del fascismo in quelle dell'Italia e della cultura
da apparire, anzi, nobile e coraggioso. Gentile credeva nel Risorgimento
e nella civiltà, e solo per questo nel fascismo, anche se ne aveva
dato un'interpretazione storica ottimistica e ne aveva scritto (nella sua
parte utopica) la dottrina. Anche con Mussolini, il rapporto personale
(sempre fortissimo in un siciliano, nel bene e nel male) non prevaleva
sulle ragioni ideali.
Aggiungo un particolare che mi viene dal filosofo Augusto Guzzo (non
gentiliano, ma messo in cattedra da Gentile), fonte attendibile. Dopo il
delitto Matteotti, alcuni vollero tentare un fascismo senza Mussolini,
e si rivolsero a Gentile perché ne prendesse il posto. Ne ebbero,
naturalmente, un rifiuto, ma da allora Gentile fu messo da parte.. Ebbe
la direzione (non, si badi bene, la presidenza) dell'Enciclopedia italiana,
e ne fece la sede di una cultura ecumenica. Era naturale, però,
che i fascisti ortodossi gli rimproverassero quella tentazione che, pure,
non veniva da lui ed era stata respinta.
Che, dopo l'8 settembre, Gentile accettasse la presidenza dell'Accademia
d'Italia, era paradossale. Quell'Accademia aveva accolto personaggi come
Fermi, Ma scagni e Pirandello, ma non lui. Fra i filosofi, Orestano e Carlini:
alzi la mano chi se ne ricorda. E ora, che motivazione poteva spingere
Gentile? La ricerca del seggio perduto? A soldi stava bene: l'Enciclopedia
lo aveva liquidato con un milione con cui acquistò la Sansoni. Campi
chiarisce, per contro, le circostanze che lo portarono a una reazione emotiva
suscitata da eventi familiari funesti, da antiche ostilità preconcette,
da nuove stupidità badogliane. Nel siciliano non si radica soltanto
la fedeltà, ma anche il risentimento.
E, personalmente, Giovanni Gentile aveva l'impressione di non aver
più nulla da perdere.
IL GIORNALE 6 febbraio 2000 Vittorio Mathieu
***
UNA RICERCA DI VERITA' Di Alessandro Campi e del suo raffinato
lavoro su Gentile posso solo dire che ha cercato la verità con passione,
cercando non di interpretare, ma di capire. In questo mondo dove gli intellettuali
interpretano ma non capiscono non è cosa da poco: una fatica di
Sisifo. Tutti coloro che non condividono la filosofia gentiliana, ma credono
che - come diceva Nietsche - in un uomo ci sia ben più della sua
filosofia non possono che ringraziare Alessandro Campi per il suo Giovanni
Gentile.
Claudio Bonvecchio
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Sermonti Rutilio L’ITALIA NEL XX° SECOLO
Storia dell’Italia moderna per gli studenti che vogliono la verità.
Prefazione di Luigi Tedeschi
Il libro è edito da "Edizioni all’insegna del Veltro"
2001, pp. 205 prezzo euro 15,43 e può essere acquistato presso l’autore
Rutilio Sermonti, Via Stella Polare n. 10, c.a.p. 00040 Montecompatri (Rm),
tel. 06/9485643, fax 06/2006605, e-mail giuliosermonti@jumpy.it
Prefazione di Luigi Tedeschi: Il XX° secolo si chiude in
un clima di cupo pessimismo. Prevale, in tempi di globalizzazione, un disfattismo
cosmico, che vede il ‘900 come il secolo delle ideologie utopiche, delle
guerre mondiali, degli olocausti. Un’eredità scomoda di cui ci si
vuole liberare al più presto e dalle cui ceneri nasce il nuovo secolo,
che si presenta come un orizzonte vuoto e incomprensibile. In realtà,
dopo aver assistito nell’ultimo decennio, all’abiura di tutti gli ideali,
della cultura e tradizioni che hanno informato di sé gli eventi
decisivi del ‘900, l’Europa si trova a non comprendere più se stessa
e quindi la propria storia, proprio perché sono state troncate le
radici di tutti quei valori che sono tutt’oggi parte integrante della propria
identità. Senza più una propria storia, i popoli europei
sono destinati a subire l’azione disgregante ed aggressiva delle holding
finanziarie che dominano i mercati e quindi le fonti stesse della propria
sopravvivenza.
La letteratura abbonda d’analisi storiche sul ‘900, ma queste dimostrano
tutta la loro insufficienza, nella misura in cui sono legate a schemi ideologici
ormai superati e smentiti dalla storia. La storia ufficiale, prodotto della
cultura politically correct dominante, fornisce una visione parziale, astratta,
faziosa e in ogni caso inidonea a comprendere i fenomeni del nostro secolo.
Si resta dunque prigionieri del manicheismo progressista, ci si rifiuta
di comprendere (e quindi si condanna senza appello) tutto ciò che
non sia compatibile con i pregiudizi ideologici di esso, a cominciare dal
fascismo e da tutto ciò che ad esso viene assimilato, in campo politico,
culturale ed economico.
Dalla lettura di questo libro, dal suo stile conciso, immediato, spesso
ironico e polemico, emerge la personalità poliedrica del suo autore.
Rutilio Sermonti infatti è un uomo di profonda cultura, dai molteplici
interessi, storici, scientifici, filosofici, che ha vissuto in prima persona,
nella Repubblica Sociale, l’epilogo di una epoca storica che egli identifica
con la fine della stessa indipendenza nazionale. Quegli eventi rappresentano
tuttora la fonte di un patrimonio ideale inestinguibile, cui occorre sempre
far riferimento, per una obiettiva analisi della storia del nostro secolo.
L’autore, esprime in questa sua opera tutta la passionalità ideale
che avvince profondamente il lettore, senza tuttavia nuocere alla serenità
della analisi storica. Anzi, la intensa partecipazione interiore con cui
l’autore narra gli eventi, conferisce all’opera un particolare significato,
poiché la storia del XX° secolo viene trattata nell’ottica di
una storia degli ideali, delle passioni, dei grandi progetti culturali
e politici che hanno animato la vita di milioni di uomini di questo secolo.
Rutilio Sermonti vuole ristabilire la verità storica del XX°
secolo, partendo dalla constatazione che non si può fare storia
attribuendole finalità ideologiche ad essa esterne o estranee. Non
è lecito in pratica servirsi degli eventi storici, interpretandoli
esclusivamente come conferma oggettiva delle proprie tesi ideologiche,
quasi la storia fosse un materiale d’analisi da laboratorio soggetto a
sperimentazioni, guidate da presupposti ideologici che ne determinino a
priori il campo d’indagine, le modalità, i fini e l’esito stesso
della ricerca.
Per Rutilio Sermonti il soggetto della storia è l’uomo: non
idee astratte poste al di la di dell’uomo stesso, ma che ne determinano
la vita e il destino.
L’autore non ha voluto scrivere un testo "alternativo" che
avesse il carattere di una "controstoria". Egli non vuole cioè
limitarsi ad una polemica antiideologica in contraddittorio con la storia
ufficiale, poiché in tal caso l’analisi storica di Rutilio Sermonti,
si ridurrebbe ad una interpretazione tra le tante del XX° secolo più
o meno ideologica, ma in ogni caso uguale e contraria alle altre. Non ci
troviamo inoltre dinanzi ad un libro di testimonianza, ad un libro dunque
"passatista", che si esaurisca nella narrazione degli eventi
del ‘900 dal punto di vista della parte sconfitta, quasi che l’autore fosse
"l’ultimo dei Moichani", che canti le gesta di un popolo dal
passato glorioso, ma ormai condannato senza speranza all’estinzione.
Al contrario, proprio dal titolo "L’Italia nel XX° secolo
– Storia dell’Italia moderna per gli studenti che vogliono la verità",
si evince che questo testo, avendo come destinatarie le giovani generazioni,
scaturisce proprio dall’esigenza di fornire un quadro obiettivo della storia
del XX° secolo, perché i giovani, in un mondo ormai privo di
ideali e vuoto di ogni contenuto spirituale, riscoprano il patrimonio storico
e culturale della propria terra italiana ed europea. In altre parole, si
vuole nei giovani la consapevolezza del ruolo storico e politico che l’Europa
dovrà assumere nel secolo XXI° nel contesto mondiale.
Se il soggetto della storia è l’uomo, non si può scrivere
la storia se non prendendo le mosse da una concezione reale ed obiettiva
dell’uomo stesso. Partendo dalla considerazione della natura umana, quale
si esprime nella sua storica determinazione, possiamo rinvenire, nello
studio della storia stessa, le costanti aspirazioni ideali e le potenziali
capacità creative dell’uomo, al di la delle diversità delle
manifestazioni contingenti.
Il fascismo nacque e si affermò nel XX° secolo, quale sintesi
ideale e politica di una visione dell’uomo in aperto contrasto con le ideologie
ottocentesche dominanti negli anni ’20, quali il liberalismo ed il marxismo.
L’ideologia liberale, pur nella diversità delle sue espressioni,
si basa fondamentalmente su una visione astorica dell’uomo, quale individuo
razionale ed autosufficiente in quanto dotato di ragione e libero per diritto
naturale. Questo stato di libertà individuale originaria ed innata
nell’uomo (che si esprime principalmente nella libertà di iniziativa
economica), se non alterato da istituzioni che ne ostacolino le manifestazioni
(forze oscurantiste, quali la Chiesa e lo Stato), condurrebbe con un processo
meccanicistico alla realizzazione di una società "perfetta",
intesa come l’autogoverno degli individui liberi ed uguali. In questo contesto,
la storia diviene un orizzonte vuoto, rappresenta solo il processo temporale
in cui si realizzerebbero progressivamente la libertà e l’uguaglianza,
a nulla rilevando lo stato di perenne contrasto e sopraffazione che si
verrebbe ad instaurare in una società in cui regni una libertà
economica selvaggia che finisca di fatto per annullare i diritti politici
dei cittadini.
L’ideologia marxista, pur essendo sorta in contrapposizione alle strutture
economiche della società liberale dell’800, condivide tutti i postulati
economici delle dottrine liberiste e la stessa visione progressiva della
storia. Ne contesta semmai gli effetti, quali la stratificazione della
società in classi sociali (la borghesia e il proletariato) che si
realizza in funzione dell’appropriazione dei mezzi di produzione. Si profetizza
quindi la conquista del potere da parte del proletariato e l’avvento in
futuro del comunismo. Nella società comunista regnerebbero l’uguaglianza
assoluta e la libertà dell’intera collettività umana. L’ideologia
marxista ha tuttavia posto come cardine della propria filosofia la storia,
intesa come fattore di sviluppo collettivo dell’agire economico dell’umanità,
che si risolverebbe in una immanente contrapposizione tra le classi sociali,
fino a determinarne la scomparsa con l’avvento del comunismo. Con l’avvento
della società comunista si determinerebbe infine la scomparsa della
storia stessa, perché con il comunismo tutte le finalità
umane avrebbero il loro definitivo compimento.
Come si può osservare, le affinità tra le due ideologie
prevalgono sulle differenze.
L’economia, la ragione, l’ereditarietà, le forze psichiche,
sono entità estranee alla volontà dell’individuo e alle sue
necessità concrete, ma che si impongono, quali finalità immanenti,
alla persona umana, rendendola strumento dei processi deterministici della
storia. Il risultato ultimo di tali concezioni ideologiche è l’oggettivazione
dell’umanità, che diviene materiale da sperimentazione ideologica
per la costruzione di modelli di società astratti ed utopici, concepiti
sempre come mete ultime, poste al di la del divenire storico. Il fascismo
invece, si contrappone ad esse perché rifiuta tutte le concezioni
della storia che affermino la dipendenza del destino dell’umanità
da forze estranee all’uomo stesso. Mussolini affermò nel ’19: "Basta
teologi rossi e neri di tutte le chiese, colla promessa astuta e falsa
di un paradiso che non verrà mai! Basta, politicanti di tutte le
scuole, colle vostre querule <accademie>! Basta, ridicoli salvatori
del genere umano che se ne infischia dei vostri <ritrovati> infallibili
per regalargli la felicità. Lasciate sgombro il cammino alle forze
elementari degli individui, perché altra realtà umana, all’infuori
dell’individuo, non esiste!"
Il fascismo pone al centro della storia la volontà dell’uomo.
Pur essendo consapevole dei limiti storici, ambientali, economici e naturali
cui è soggetta la vita umana, la volontà diviene motore della
storia, nella misura in cui sa affrancarsi ed imporsi a tutti questi fattori
limitanti. La storia è considerata un processo creativo mai esaurito,
mai definitivamente compiuto, che perennemente si rinnova e si evolve.
Essa non ha finalità deterministiche o salvifiche che si impongono
all’uomo, ma è il risultato degli obiettivi materiali e spirituali
che la volontà individuale e comunitaria degli uomini riesce a realizzare
nel tempo.
In questo libro, fuori da impostazioni ideologiche finalistiche, Rutilio
Sermonti delinea una concezione della storia, intesa come storia del divenire
dei popoli. Si fa riferimento infatti a quegli aggregati comunitari spontanei
uniti, sin da lontane origini, da legami politici e che si costituirono
sin da epoche antichissime in Stati, in istituzioni dotate di una autorità
originaria. E’ questa una concezione che postula il primato della politica
sull’economia ed ha un contenuto spirituale. Le istituzioni politiche infatti
si legittimano e si evolvono sulla base delle esperienze, dei valori, delle
fedi religiose su cui si articola la vita dei popoli nel corso della storia.
Nessuna concezione dello Stato può dunque sussistere se non ha a
suo fondamento la tradizione, intesa come patrimonio spirituale specifico
di ogni popolo. Affatto peculiare del fascismo è la concezione dello
Stato. La legittimità dell’autorità statuale è di
natura eminentemente politica e totalitaria, in quanto lo Stato ha il compito
di coinvolgere, disciplinare, coordinare nelle proprie istituzioni tutte
le attività umane per renderle funzionali agli interessi morali
e materiali della comunità nazionale.
Il fascismo si contrappone al contrattualismo liberale, che concepisce
lo Stato solo nella funzione di garante del rispetto dei diritti individuali
dei singoli, ma si estranea dalle loro attività. Il fascismo è
altresì avversario irriducibile del marxismo, quale portatore di
una visione classista che riconosce l’unica forma di aggregazione politica
autentica nelle classi sociali considerate come mezzi idonei alla realizzazione
degli interessi economici collettivi.
Ma il fascismo è nemico mortale sia dei liberali che dei marxisti
soprattutto sul tema dell’egualitarismo. All’uguaglianza giuridica astratta
dei liberali e all’uguaglianza livellatrice di natura economica dei marxisti,
il fascismo antepone l’estrema eterogeneità della persona umana.
L’uomo non è suscettibile di essere ridotto a numero come nella
democrazia liberale, né di essere artificialmente subordinato agli
interessi di classe. Disse Mussolini: "Non vi sono due sole classi
sociali, ma infinite". Affermò inoltre "la diseguaglianza
irrimediabile e feconda e benefica degli uomini che non si possono livellare
attraverso un fatto meccanico ed estrinseco come il suffragio universale".
Nel ’34 disse ancora: "La uguaglianza di base non esclude, ma anzi
esige la differenziazione nettissima delle gerarchie dal punto di vista
delle funzioni, del merito, delle responsabilità".
Quella fascista è una concezione organica della comunità.
Lo Stato per il fascismo esprime il fine ultimo e unitario in cui si realizzano
le attività di tutte le componenti della nazione. Non l’astratta
costruzione giuridica del giusnaturalismo liberale, né una entità
strumentale nelle mani del partito unico, al fine di imporre la dittatura
del proletariato, secondo la concezione leninista. L’idea rivoluzionaria
del fascismo è incentrata invece sulla partecipazione diretta ed
attiva dei cittadini alla vita dello Stato. Nello Stato sono infatti rappresentate
e si articolano tutte le componenti del corpo sociale, nella collaborazione
e nella reciproca integrazione. Non è mai un modello che assurge
a perfezione, ma è sempre perfettibile. Lo Stato può vivere,
nelle diverse epoche storiche, momenti di suprema unità, come può
subire talvolta l’azione di forze disgregatrici, ma, nel divenire dei popoli
sempre si evolve e si trasforma. E’ l’espressione etica della identità
morale tra l’individuo e la comunità nazionale.
Rutilio Sermonti esamina gli avvenimenti del XX° secolo nell’ottica
di un irriducibile confronto – scontro tra due opposte concezioni dell’uomo:
l’una volontaristica, spirituale ed organica (il fascismo) e l’altra determinista,
materialista ed economicista (liberalismo e marxismo, vale a dire l’antifascismo).
Nello scontro mortale, la sconfitta del fascismo ebbe come conseguenze
la fine della supremazia europea nel mondo e l’affermarsi del dominio mondialista
degli U.S.A. e dell’U.R.S.S. Le aspirazioni europee erano limitate alla
ricerca di "spazi vitali" (Italia e Germania) o alla difesa di
posizioni di privilegio (Francia e Inghilterra). Solo gli U.S.A. che, più
che uno Stato, erano e sono una grande potenza, in quanto rappresentano
il baricentro degli interessi finanziari mondiali, potevano perseguire
disegni politici ed economici dalle dimensioni mondialiste. Il capitalismo
è una dottrina economica basata sull’espansione costante dei mercati.
Secondo l’autore pertanto, poiché gli U.S.A. non riuscirono mai,
nonostante le riforme dell’epoca del New Deal, a superare la crisi generata
dalla "grande depressione" del ’29, la guerra contro le potenze
dell’Asse, rappresentò per Rooswelt e per la finanza internazionale,
una esigenza vitale per la sopravvivenza stessa del sistema capitalista.
Solo con la guerra fu resa possibile infatti la ripresa della produzione
interna su vasta scala ed il dominio di un nuovo mercato dai confini planetari.
Il capitalismo però, per attuare il suo disegno di dominio imperialista,
trovò in Stalin il suo naturale alleato, ideologico e politico.
La stessa U.R.S.S. era portatrice di una dottrina mondialista, egualitaria
e materialista, che, seppure di segno opposto al capitalismo, ne condivise
le aspirazioni di dominio mondiale.
Se per i principali Paesi europei la 2a guerra mondiale rappresentò
il declino del loro ruolo di potenze mondiali, per l’Italia fu la fine
della sovranità nazionale. I partiti antifascisti furono legittimati
dalla sconfitta e dalla occupazione militare alleata. Il confronto politico
in Italia non fu più incentrato sugli interessi politici, economici
e sociali della nazione italiana, ma si ispirò sempre alle ideologie
mondialiste del bipolarismo U.S.A – U.R.S.S. Sulle ceneri della sovranità
nazionale, si affermò il dominio mondialista del capitalismo made
in U.S.A., che tuttora si sta imponendo con la globalizzazione.
Questo libro rivela tutta la sua attualità e originalità
nel ripercorrere le varie fasi storiche di questo processo. Il dominio
capitalista degli U.S.A. ebbe la sua genesi con la diffusione delle ideologie
liberali e con il sorgere della società industriale nell’800, fu
artefice della sconfitta degli imperi centrali nella prima guerra mondiale,
si affermò come grande potenza in condominio con il comunismo dopo
la 2a guerra mondiale ed infine, dopo il tracollo dell’U.R.S.S., si è
imposto come unica superpotenza su scala planetaria.
Tra capitalismo e comunismo (U.S.A. e U.R.S.S.) non vi fu mai scontro
frontale. Essi possono sembrare modelli antitetici, ma in realtà,
per sussistere ed assurgere a potenze mondiali l’uno ha avuto necessità
dell’altro, se non altro come termine dialettico opposto di riferimento.
Infatti il comunismo tutte le volte che ha conquistato il potere, ha perso
il suo carisma rivoluzionario, quale redentore della classe proletaria
dallo sfruttamento capitalista, degenerando in burocrazia, brutale dittatura,
stagnazione economica. Il capitalismo, dopo il crollo dell’U.R.S.S., perduto
il suo ruolo di missionario e difensore della democrazia contro il totalitarismo
comunista, mostra il suo vero ed unico volto imponendo a tutto il mondo
una economia finanziaria che distrugge quella produttiva, generando disoccupazione,
sfruttamento, ingiustizia sociale, privilegi di pochi. Nell’U.R.S.S. il
comunismo è sopravvissuto a lungo al fallimento totale della sua
economia, in virtù sia del suo ruolo di potenza mondiale, in qualità
di alter ego del capitalismo, che del sostegno finanziario degli stessi
paesi occidentali in tempi di distensione.
Il capitalismo riuscì a sconfiggere le potenze dell’Asse con
il determinante contributo militare dell’U.R.S.S. Nel dopoguerra, la diffusione
della ideologia marxista in occidente, indusse i governi atlantici a mitigare
le diseguaglianze sociali ed a promuovere riforme in tal senso. Il tracollo
del comunismo ha infine offerto alle lobbies finanziarie possibilità
incommensurabili di conquista di nuovi mercati.
E’ quindi evidente come il comunismo abbia di fatto collaborato alla
espansione indefinita del capitalismo. Il comunismo restò sempre
geneticamente legato al cordone ombelicale capitalista che non riuscì
mai a recidere. Scrisse Jiulius Evola nel ’29 che se da una parte "la
verità centrale del bolscevismo è <la disintegrazione
dell’individuo>, la creazione cioè <dell’uomo massa>",
dall’altra "l’America non parla dell’uomo massa: non ne parla perché
di fatto se lo reca contenuto nella sua anima". Possiamo dunque
constatare che la creatura è oggi tornata nella mente del suo creatore:
il capitalismo non ha sconfitto il comunismo, semmai invece si è
sostituito ad esso nelle sue realizzazioni pratiche di dominio mondialista.
In Italia l’indipendenza nazionale finì con il regime fascista,
perché indipendenza fu sinonimo di sovranità interna ed internazionale
dello Stato. Storicamente quindi il fascismo non fu solo un regime, ma
un sistema politico che si identificò con la nazione italiana, nel
ruolo di artefice della creazione di uno Stato che fosse espressione, nella
sua unità, della intera comunità nazionale.
Oggi si assiste al fenomeno inverso. Si riduce progressivamente la
presenza dello Stato, perché ostacolerebbe l’espansione del processo
di globalizzazione. Il liberismo selvaggio sradica i valori, le tradizioni,
la personalità dei singoli come dei popoli. In questo livellamento
generale, ai popoli non resta che il ruolo passivo di consumatori. Il popolo,
non più partecipe della sovranità statuale, in qualità
di comunità nazionale, è succube delle manovre della finanza
mondiale.
I diritti sociali (lavoro, sanità, istruzione, previdenza e
assistenza sociale), acquisiti nel corso del ‘900 dal cittadino in quanto
lavoratore e di conseguenza membro attivo della comunità nazionale,
che avevano affrancato in Europa l’uomo dalla schiavitù del fabbisogno
quotidiano, vengono progressivamente eliminati dall’avanzata del liberismo
selvaggio, perché incompatibili con la massimizzazione del profitto.
Mussolini disse che mentre nel XIX° secolo si era realizzata l’uguaglianza
dinanzi al diritto, nel XX° secolo si era conquistata l’uguaglianza
dinanzi al lavoro. Si avverte in questo fine secolo un senso di decadenza
e regresso. Si profila l’avvento di una condizione umana succube del fabbisogno
materiale, in cui si riproporranno i problemi legati allo sfruttamento,
la povertà diffusa, l’emarginazione sociale. Il XXI° secolo
si apre all’insegna di un liberismo cosmopolita, un ideale ottocentesco
che credevamo ormai tramontato. Anziché il 2000, sembra quasi stia
per cominciare il ‘900.
Al di la di ogni facile pessimismo, Rutilio Sermonti, in questo libro
destinato ai giovani, offre loro speranze ed orizzonti ideali che non sono
mai tramontati. Non a caso l’ultimo capitolo si intitola "C’è
un Duemila per l’Italia?". Partendo dalla constatazione che l’Italia
ha avuto una breve indipendenza, solo 84 anni (1861 – 1945), che dopo la
"Liberazione" la libertà ha avuto "il raggio di
un guinzaglio, come quella di un cane da pagliaio" e che la dominazione
americana ha snaturato le qualità migliori del nostro popolo, l’autore
si domanda: "Perché combattere ancora, perché non
offrire il collo al giogo, perché sperare? Perché continuare
a scrivere libri come questo?"
La risposta si può rinvenire nello stesso ordine naturale dell’universo,
che continuerà immutabile ad esistere al di la ed oltre la "grande
frode materialista". Vi è nell’autore una certezza metafisica
che tutti noi, partecipi della stessa comunità ideale, facciamo
nostra. Nessuna oppressione potrà mai annientare le potenzialità
creative dell’uomo, che, quanto più oppresse e violentate, tanto
più avranno capacità di reazione. Queste saranno le condizioni
esistenziali da cui potrà generarsi una rivolta travolgente contro
un mondo in decomposizione, ma che tuttavia, mediante il potere finanziario,
opprime l’umanità intera.
L’autore fa appello quindi a coloro che sono scampati al contagio di
"Mammona", perché sappiano suscitare il grande
risveglio delle potenzialità del popolo italiano, ora narcotizzato,
ma sempre depositario dei suoi valori e della sua plurisecolare civiltà.
Non potrà essere certo la sola Italia a determinare la nascita
di una nuova era di libertà e civiltà. Ma l’Europa ha le
potenzialità morali e materiali per farlo. L’imperativo categorico
è riassunto da Rutilio Sermonti nelle frasi conclusive del suo libro:
"Un avvenire al nostro passato. Lo voglia Iddio, ma cominciamo
intanto a volerlo noi. I milioni di giovani europei caduti combattendo
gli uni contro gli altri per la Patria e conseguendo solo il trionfo dei
plutocrati senza patria, troverebbero finalmente pace".
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