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Nel canzoniere fascista ci furono tutti e un po’ di tutto: camicie nere e balilla, manganellatori e manganellati, eroi e martiri, quarte sponde e colli fatali, posti al sole e mari nostri, soldati e studenti, madri e sorelle, operai e legionari, sommergibili e carri armati e quant’altro; il regime volle canti eroici, perché in essi vide – come nel cinema – secondo la nota locuzione mussoliniana, «l’arma più forte» e gli autori, da Blanc a Ruccione, da Spetrino a Pellegrino, da Arconi a Filippini, offrirono agli italiani una grande messe di canti. Giacomo De marzi è docente universitario di Storia Moderna. Ha pubblicato: Considerazioni sulla teoria della storiografia (Cassino 1978); Adolfo Omodeo e la storiografia della Restaurazione francese (Roma 1982); L’opera di Adolfo Omodeo nella storiografia italiana (Cassino 1983). Per i tipi della QuattroVenti di Urbino ha pubblicato: Storici e teocratici. Maistre-Thierry-Lamennais-Thiers (Urbino 1987); Adolfo Omodeo: itinerario di uno storico (Urbino 1988); ha curato la pubblicazione del Diario di guerra. 1917-1918 di E. Tomei (Urbino 1989); Introduzione alla ricerca storica (Urbino 1993); "I monumenti e la memoria storica", in La memoria storica tra parola e immagine (Premio Nazionale di Cultura “Frontino - Montefeltro” ed. 1996); Piero Gobetti e Benedetto Croce (Urbino 1996). Collabora con varie riviste storiche nazionali. Ma dal Patto di pacificazione con i socialisti, del 1921, il fascismo passò rapidamente allo squadrismo più acceso, specialmente dopo il congresso di Roma dello stesso anno, in occasione del quale fu fondato il partito in cui prevalsero gli estremisti. Dopo la caduta di Bonomi si giunse ad una lunga ed estenuante vacanza governativa, che sfociò nella nomina dell’irresoluto Facta a Presidente del Consiglio. Nel luglio del 1922 il governo entrò subito nella crisi aperta dai massimalisti socialisti che proclamarono lo sciopero generale per «difendere le libertà politiche e sindacali minacciate dalle fazioni reazionarie». I fascisti, allora, si sostituirono allo Stato e lanciarono il loro ultimatum contro il proletariato e contro l’apparato statale, concentrando le loro squadre d’azione attorno alla capitale e dando poi inizio, il 28 ottobre del 1922, alla cosiddetta marcia su Roma. Respingendo la richiesta di stato d’assedio avanzata da Facta, il re Vittorio Emanuele III diede una soluzione extracostituzionale alla crisi e incaricò Mussolini di formare un nuovo governo, anche al fine di assorbire le residue resistenze antimonarchiche del fascismo. Definito, allora, il potere di Mussolini, l’attenzione e l’impegno di ricerca possono rivolgersi ai rapporti tra il duce ed il popolo ed il tema si può affrontare anche sulla base dell’analisi degli inni del “ventennio”, nei quali vennero enucleate e messe in luce alcune idee etico-politiche, particolarmente importanti, che costituirono le tessere del mosaico ideologico e la formula della nascita del futuro “impero”. In molte di quelle canzoni si riscontrarono le testimonianze ed i segni della graduale “chiarificazione” del regime, che si concluse nel riconoscimento del dato di fatto “inoppugnabile” che gli “italici” erano per eccellenza i discendenti di Roma ed erano anche l’essenza del nuovo impero che rappresentava, dunque, il naturale coronamento della monarchia sabauda. Dopo la Grande Guerra si verificò un progressivo allontanamento della collettività dalla politica attiva e dalla gestione della cosa pubblica e così anche i canti, gli inni e le canzoni furono utili a far rinascere nel popolo italiano l’attenzione e l’interesse per il fascismo: i contenuti politici del nuovo regime – ossia i presunti impegni sociali – furono diffusi anche attraverso la musica, elemento propagandistico tra i più efficaci e, sicuramente, «strumentalizzazione non secondaria» (Mercuri-Tuzzi, p. 19). A quel tipo di attività volta alla persuasione, alla diffusione ed al sostegno di determinate posizioni ideologiche, hanno sempre fatto ricorso e hanno dato grande importanza i governi di cosiddetta “democrazia diretta”, le dittature, i partiti più in vista, le religioni, ma soprattutto le dittature, in perpetua ricerca di più larghi e più vasti consensi e proselitismi. Francesco Sapori, nella sua raccolta di Canti della patria, enunciava un programma ben preciso: «Muovere guerra al linguaggio cadaverico, astratto, surrealista. Contro di esso non leveremmo la voce; seppure, la frusta. Crediamo al calore dell’ispirazione, per spiritualizzare e trasfigurare la realtà» (Sapori, p. 16). C’è ben poco da interpretare: sui fatti dell’arte e sui mezzi dell’espressione, anche con modi impropri, doveva agire l’utilitaristica «trasfigurazione della realtà». La fantasia, la leggenda, il mito, vitalisticamente assai ricchi, dovevano essere, più che suggeriti, imposti agli immaturamente ambiziosi uomini della nuova Italia. Ma quelle composizioni, se andiamo a guardare bene, furono soltanto un continuo muoversi al di sopra delle righe ed un lungo straripare: alla maggior parte di esse, a distanza di tempo, si può tranquillamente negare il serio impegno politico; al massimo, si possono riconoscere, in alcuni casi, soltanto una applicazione diligente ed appassionata, un impiego volenteroso (e talora ostinato) delle energie e delle facoltà di alcuni autori ed a volte, fervore, premura, zelo e passione. Per raggiungere gli obiettivi di far odiare il nemico “bolscevico” e di esaltare gli istinti per la guerra, il fascismo fece continuo ricorso ad un canzoniere ricchissimo, che rivelava un aspetto non nuovo dell’impegno politico, sotto certi riguardi molto simile a quello presente in altri paesi, in Italia e fuori, in Occidente e nell’Europa Orientale. I risultati non si fecero attendere, anche se i versi non furono così innovatori da destare sorpresa o, diciamo pure, qualche turbamento… furono considerati, molto ingenuamente, più che canti, «rime di devoti, che sono preghiere alla divinità sconosciuta, preghiere di uomini vivi nel sole e saldi nel destino», canti che «rimangono come il testamento popolare e politico di un’epoca... Che vibrano di gioventù, di gioia, di volontà e di eroismo più che di malinconia... Il fascismo ha vinto perché aveva le canzoni più belle degli “altri”!» (Gravelli, pp. 8-13). La fortuna della canzone in terra d’Italia ha subìto spesso notevoli oscillazioni, dovute anche ai mutamenti della situazione politica; pure è possibile seguire con una certa sicurezza una linea di svolgimento pressoché costante che, partendo dall’Ottocento, si fece decisa e marcata agli inizi del Novecento; e mentre la melodia italiana si diffondeva sempre più, il fascismo, ormai saldamente al potere, cominciò ad esercitare un rigorosissimo controllo anche in quel campo: nel 1924 «una circolare del Partito nazionale fascista recava l’ordine di presentare tutte le canzoni straniere con parole “comunque tradotte”. Sarà la sagra delle parole in libertà. Un esempio? L’inno universitario Collegiate diventò: “Picche nicche / E chi se ne fricche / Picche nicche / Parroco e sindicche...”. E mentre il cognac diventava “arzente” e il pullover “farsetto”, il nome di Louis Armstrong veniva tradotto in quello di Luigi Braccioforte e quello di Benny Goodman in quello di Beniamino Buonomo…» (Borgna, p. 106). In quanto alle rime, pur nel variare dei significati, comparvero spessissimo abbinamenti come valore-onore, battaglia-mitraglia, valore-tricolore, bellezza-ebbrezza, ardire-avvenire, cimento-ardimento, libertà-fedeltà, e quant’altro, mentre il “vincere o morir…” rappresentò l’epilogo della maggior parte dei canti, senza contare l’altra terminologia, relativa, in modo diretto o allusivo, a fattori politici. Anche l’uso delle frasi-titolo fu di per sé eloquente: il linguaggio cruento ed eroico doveva balzare con veemenza dalla schematica incisività del titolo per essere poi esasperato nelle sue implicazioni significative anche con studiati accorgimenti; spesso si passava, con grande naturalezza, dalla commedia alla tragedia, dall’umorismo all’orrore, con una contaminazione di toni che tanto piaceva. Ci fu, nel contenuto dei canti, un forte distacco dalla realtà, ma i tanti morti e le numerose vittime rappresentarono un risvolto che non era stato del tutto previsto! Molto presto la morte venne accettata come una regola del gioco; a mano a mano che i canti crescevano di numero, la violenza in essi divenne quasi palpabile, lacerante: in quello consistette la loro essenza, che li distinse, nettamente, da quelli della Grande Guerra. Compito primo dei corifei, quindi, fu quello di coinvolgere i cittadini nell’aspetto tragico e pseudo-eroico dell’avventura violenta, ma nello stesso tempo anche di mostrare loro quali fossero gli effetti delle azioni “eroiche”, con tanto compiacimento e con tanta ipocrisia. Ma il fascismo, è noto, si ritenne il grande creatore di tempi nuovi, il fausto liberatore delle forze fresche e sane della nazione e la rinnovata Italia in camicia nera, di conseguenza, dovette rappresentare anche la vera musa del nostro rinnovato canto. E così, a poco a poco, le redini della censura si restrinsero e ci si avviò verso atteggiamenti meno tolleranti anche in musica: nel 1929 «i carabinieri emanarono una serie di circolari aventi per oggetto i dischi contrari all’ordine nazionale o comunque lesivi dell’autorità. Nell’elenco figuravano, tra gli altri, inni nazionali come La Marsigliese, canti socialisti e anarchici e persino ballate sulla ricostruzione della sfortunata impresa del generale Nobile al Polo Nord. Essendo entrati in vigore quell’anno i patti lateranensi, non venivano ammessi riferimenti men che rispettosi alla “Religione di Stato” e, colmo dei colmi, nei fulmini della censura incappò addirittura La leggenda del Piave, divenuta nel frattempo popolarissima, perché conteneva espressioni sconvenienti come tradimento o onta consumata a Caporetto, che verranno opportunamente emendate» (Borgna, pp. 106-107). Si deve quindi osservare che, per motivi di scelta dettati da considerazioni estranee alla musica, per la faziosità di certi atteggiamenti pseudocritici e nazionalistici e per effetto della censura fascista, il pubblico italiano ebbe una visione falsata (spesso edulcorata ed eroicizzata) della situazione politica, che spesso venne conosciuta e quindi apprezzata anche per merito degli indirizzi dominanti nell’innodia del tempo, sulla quale esercitarono pesanti influssi i canoni della cosiddetta “arte di regime”. Ma a descriverli così, quei canti, a freddo, lontani nel tempo, quasi remoti – si dirà – si demolisce facilmente qualsiasi composizione: è vero! Certo, bisogna andare cauti nel formulare giudizi, anche perché il pubblico dei nostri giorni è fin troppo arrendevole, mentre si mostrano fieramente combattivi e sdegnosi gli “anziani”, i “reduci”, i “sopravvissuti”, i “nostalgici” vecchi e nuovi, che non vogliono veder bistrattate le note che accompagnarono e segnarono la loro gioventù. Si potrà facilmente convenire, credo, sul fatto che il “plateale” e il “fumettistico” presenti in molti canti, oggi lo scopriamo molto più facilmente di allora e si potrà anche affermare che in quelle canzoni mancò totalmente l’impegno, concetto dubbio ed astratto del quale ancora oggi non s’intende appieno il significato, ma è pur certo che una rilettura a distanza di tempo può condurre a delle sorprese e a suggerire una valutazione più esatta del “clima” socio-politico di una stagione, quella fascista, che comincia solo ora ad avere una valutazione più equa, anche alla luce della nuova documentazione esistente. Debbo aggiungere, per amore di verità, che se mancarono al fascismo, nonostante i “Littoriali”, veri poeti, non mancarono, tuttavia, alcuni buoni compositori di musica. D’altronde, nel mio giudizio, mi viene in aiuto il segretario del partito fascista Turati, che così ebbe a scrivere ed a lamentarsi dell’innodia del tempo: «Ho notato con disappunto il fiorire di inni, canzoni e marce fascisti destinati ai Balilla, alle Avanguardie, ai Fascisti, a tutte le organizzazioni del Regime. Valore artistico: NULLO! Assolutamente!... Non sempre l’inno dedicato al Duce o una musica per Balilla erano dei semplici e puri atti di omaggio al regime, anche se compiuti con soverchia ingenuità artistica: spesso, in nome del Fascismo, purtroppo se ne tentava la diffusione in soldi contanti... Così è stato messo un punto fermo. Il Fascismo ne guadagna in dignità. Non parliamo poi di quanto ci guadagna l’arte» (Augusto Turati, L’On. Turati contro l’abuso di inni pseudo-fascisti, in “Il Bargello”, 4 agosto 1929). E se lo affermava il segretario del partito fascista...! Iniziamo, dunque, con l’Inno Trionfale del Partito Nazionale Fascista, Giovinezza!: «Per ordine di Sua Eccellenza il Segretario del P.N.F. l’inno Giovinezza! dev’essere ascoltato nella posizione di attenti. Alle prime battute si saluta romanamente...»; le strofe erano guidate dal desiderio imperioso di grandezza, di chiarezza, di ordine, di gloria, d’onore. Ne esistevano diverse versioni e nella definitiva, quella voluta dal duce, di Salvator Gotta e di Giuseppe Blanc, l’esordio marziale era quello noto: «Salve, o popolo di eroi, / Salve, o Patria immortale / Son rinati i figli tuoi / Con la fé degli ideali...». Dell’eroismo si faceva un esercizio di potenza energetica; il fascismo era «redentor», gli dava una mano anche Dante Alighieri, mentre Mussolini veniva presentato come padre dei nuovi italiani e dei nuovi confini d’Italia, «rifatti per la guerra di domani». Quella versione enumerava temi sufficientemente idilliaci e nazionalistici: ovviamente erano presenti i guerrieri, ma c’erano anche i pionieri, i poeti, gli artigiani, i signori, i contadini… forse perché questi ultimi facevano rima con Mussolini… e poi le bandiere e le schiere, insomma era meno “esagitata” delle altre; il ritornello, simile in tutte, si riferiva alla «Giovinezza giovinezza / Primavera di bellezza» come esaltazione spirituale, in una grande confusione di valori morali e fisici. La versione degli arditi, quella che esordiva «Col pugnale e con la bomba/ Nella vita del terrore…», appariva meno poetica e più militarizzata ed esaltava, naturalmente, la tradizione guerresca con i dovuti riferimenti all’eroismo italico: «Guerra guerra all’austriaco invasor»; erano presenti tante armi: il pugnale lo si trovava in quattro delle cinque strofe, la bomba in tre, poi spuntavano anche la trincera, l’obice, la fiamma, la mitraglia: «Allorché dalla trincera/ Suona l’ora di battaglia/ È la prima “Fiamma Nera”/ Che terribile si scaglia…»; il ritornello era sempre lo stesso. Nella versione di inno fascista non figuravano i riferimenti sociali e “culturali”, ma si accentuavano le armi, le fiamme, le battaglie, la fede, la gloria e l’onor. Era quella che esordiva: «Su compagni in forti schiere/ Marciam verso l’avvenire/ Siam falangi audaci e fiere/ Pronte a osare e pronte a ardire…»: nel ritornello si aggiungeva il riferimento al duce: «Per Benito Mussolini, Eja, Eja, Alalà». Il noto grido di guerra Eja, Eja, Alalà fu suggerito da D’Annunzio il 9 agosto del 1917, nel campo della Comina, in Friuli, in sostituzione del “barbarico” Hip, hip, urrà, con il quale i compagni salutavano il poeta. Non piacque al vate, quell’Hip, che gli ricordava «l’urlo degli ukase e che è la benedizione del pontefice moscovita» e volle mutarlo – dopo che tutti i presenti si «mondarono la bocca dell’urrà col rovescio della mano» – con i riferimenti classici alla esclamazione latina eja e all’alalà, col quale Achille aizzava i cavalli: il guerriero greco, infatti, prima di lanciarsi contro Ettore, emise quel grido, come ricorda anche Pascoli nel verso «emise allora un alalà di guerra»; divenne presto d’uso comune tra i soldati e dopo la guerra fu ripreso dai fascisti. Per gli uomini della marcia su Roma e per i cosiddetti “antemarcia” la posta in gioco era “l’assestamento” politico della penisola dopo lo sconvolgimento creato dalla Grande Guerra e con l’armistizio riprese vita, per loro, l’inno della “Giovinezza”, sicuramente il più cantato: «A ritmi d’assalto, quasi, ché i giovani avevano ancora il passo dei reparti d’assalto, passo corto, lesto, e che “Giovinezza” bene marcava. Fu quasi una sfida della poesia, alla piazza. Gli “altri” invocavano la gioia terrena, noi, non chiedevamo che una primavera di bellezza il cui segreto era nella gioventù. Così cantammo il 15 aprile del 1919 a Milano, il 25 aprile a Brescia, quando Wilson negò l’italianità della Dalmazia, ed ovunque il canto fu gettato, affinché valesse a scalpellare le anime per rimettere al sole un orgoglio…» (Gravelli, p. 70). Giovinezza! nacque come canto goliardico, dal titolo Commiato, nel 1909: «Son finiti i giorni lieti / Degli studi e degli amori…». Divenne in seguito patrimonio canoro degli alpini: nel 1910, a Bardonecchia, durante un corso di addestramento-sciatori per ufficiali degli alpini, Giuseppe Blanc, che partecipava a quel corso, volle cantare al pianoforte la sua creazione, Commiato, che piacque molto ai presenti tanto da venir promossa, seduta stante, Inno degli sciatori: fu avviata prontamente ai reggimenti degli ufficiali presenti al corso (fu eseguita anche in Libia nel 1911). Nel 1917 fu proclamata Inno degli Arditi, dai quali passò ai primi fasci di combattimento; venne cantata durante la marcia su Roma e da allora fu considerata l’inno ufficiale del regime, sotto la guida del «Capo impareggiabile contro l’orda bolscevica... accompagnò le tappe sanguinose e vittoriose della rivolta che ruggiva nelle città, invadeva le campagne, penetrava nei villaggi, saliva le montagne, tricolorava l’Italia! Fu l’inno della riscossa indomabile...» (Gravelli, pp. 56-57). Fu senza dubbio «il primo canto fascista... Cambiarono le parole, rimase immutato lo spirito che lo aveva per la prima volta animato… al suono del quale si combatterono le più belle battaglie…» (Carrara, p. V). Il ritornello «Giovinezza, giovinezza» rappresentò l’adattamento – operato dal sottotenente degli arditi Marcello Manni – di un coro tratto dall’operetta Festa dei fiori, di Giuseppe Blanc, con parole del giovane poeta Nino Oxilia, morto in guerra nel novembre del 1917. Ma erano presenti, in qualche modo, altri autori: il poeta Vittorio Emanuele Bravetta (che incontreremo in tante altre occasioni), per la versione di Torino, mentre, per la versione diffusa a Firenze, c’era una riduzione di Ernesto Vitale. I versi di quella ufficiale e definitiva erano del poeta di Ivrea, Salvator Gotta, scritti per espressa volontà e per incitamento dello stesso Mussolini. Pur nella sua veste di inno fascista – come affermò Marcello Manni – rimase sempre e in prevalenza l’inno dell’arditismo. La realtà fascista, inevitabilmente eroica, doveva trascinare alla lotta e alla gloria e doveva restituire all’uomo italico la sua “vera” dimensione: quella del combattente! Erano note le parole di Marcello Manni: «Compagni torinesi, io vi porto una canzone che è vostra, una canzone che forse il vostro bel cielo ispirò, una canzone che porta ancora viva la freschezza di un canto goliardico. Pur nella sua veste fascista, essa rimane la canzone dell’arditismo…» (M. Manni, Il successo del giorno, in “Domenica del Corriere”, 18 novembre 1922). Il padre storico del canzoniere fascista fu certamente Giuseppe Blanc (nato a Bardonecchia l’11 aprile del 1886 e morto a Santa Margherita Ligure il 7 dicembre del 1969), «sbadigliatore infaticabile sui banchi dell’Università, ma allievo intelligente ed assiduo del Liceo Musicale, ove studiò armonia e contrappunto; giovane montanaro, piemontese, biondo, e “ben piantato”... sapeva suonare tutti gli strumenti, dalla fisarmonica al violino, forsennato capo-banda durante le scorrerie notturne per la città addormentata…» (Gravelli, p. 53). Studiò a Torino con G. Bolzoni e fu poi allievo di W. Braunfels a Monaco. Dopo la laurea in giurisprudenza, conseguita a Torino, fu combattente nella Grande Guerra come ufficiale sciatore; divenne notissimo alle genti come compositore della musica dell’operetta Festa dei fiori, presentata per la prima volta al pubblico nel gennaio del 1913 dalla compagnia Vecla-Vannutelli, al teatro Eliseo di Roma: la musica ebbe ottime accoglienze. Compose ancora Fiançailles, Le statuette di Chelsea (pantomima), Il convegno dei morti (visione tragica, libretto di Salvator Gotta, 1923), La valle degli eroi (libretto di S. Gotta, 1931), alcuni ballabili, tra cui il noto Malombra e numerosi inni e canzoni che incontreremo nel prosieguo del presente lavoro. Ma il genere dell’operetta non godette i favori di Mussolini al potere, il quale, pur consacrando il Blanc iniziatore del canzoniere di regime, tuttavia si scagliò contro quel genere poco marziale, facendo mostra di un’istintiva prevenzione, non disgiunta da una forma quasi morbosa di avversione contro gli stereotipi italiani: chitarre, mandolini, serenate, tabarins (vietati nel 1927), canzoni dialettali e, appunto, l’operetta. E Blanc non perseverò su quella strada e riuscì, almeno nel caso di Giovinezza!, ad attenuare l’ombra della vecchia farsa goliardica. In seguito ebbe spesso mano felice e copiosa produzione, anche se non sempre riuscì a restare completamente fuori da trame banali, da vieti luoghi comuni e da motivetti scontati. In ogni caso, l’inno ufficiale di un regime autodefinitosi “virile”, come quello fascista, non poteva affondare le sue radici nel genere leggero dell’operetta e nella cantilena che sapeva troppo di canzone popolaresca ed è forse per quel motivo che Gravelli, nel suo testo (pp. 57-59), tentò di scoprire altre e più nobili origini: le andò a cercare lontane nel tempo, nelle affermazioni del vecchio “critico popolare” di Marina di Pisa, Dore Ceccherini, negli studi del “noto libraio” Alfredo Becherelli di Arezzo, negli “spartiti” del signor Gino Longhi di Bologna, nell’affannoso tentativo di colorarle di vetustà e di tradizione che l’inno non possedeva. Ci furono anche molte risposte, in chiave antifascista, alle canzoni del ventennio, molti controinni e uno dei principali autori fu senza dubbio il poeta popolare Spartacus Picenus, alias Mario Offidani; quel tipo di controcanto servì «a deridere l’avversario e a ritorcergli contro le parole d’ordine, metodo che usavano spesso anche i fascisti» (Settimelli-Falavolti, p. 80). Molto note le parodie da cantare sull’aria di Giovinezza!; tra le altre, Bolscevismo, bolscevismo: «Bolscevismo! Bolscevismo! / Tu sei il vero Socialismo! / Bolscevismo! Bolscevismo! / Tu ci dai la libertà!...»; Delinquenza, delinquenza: «Sono avanzi di galera / Son banditi, son ladroni / Son la nuova mano nera / Al servizio dei padroni... Delinquenza, delinquenza / Del fascismo sei l’essenza / Col delitto e la violenza / Tu oltraggi la civiltà…». Un’ulteriore versione della stessa parodia, sempre dal titolo Delinquenza, delinquenza, così suonava: «E si chiamano fascisti / Va con forza e va con cuore / In realtà sono teppisti / Sotto il manto tricolore / E taluni discendenti / disonorano l’Italia / Son protetti dalla sbirraglia / Hanno sicura impunità... Delinquenza, delinquenza...». C’era poi Guardia regia, guardia regia: «Per un pugno di monete / Per un pane che ti han dato / Rinnegasti la tua meta / Quella del proletariato / Hai tradito e abbandonato / I compagni di lavoro / Con i quali nel passato / Tu lottasti per l’avvenir… Guardia regia, guardia regia / Contro te la guardia rossa / Alla prossima riscossa / La tua infamia punirà...». Ed ancora la ben nota parodia Matteotti, Matteotti (G. Salviucci Marini): «Matteotti, Matteotti / Grande martire d’Italia / Mussolini coi gambe in aria / Lo faremo fucilar / Mussolini, traditore / Che d’Italia fa il terrore / Matteotti, uomo d’onore / Lo faremo incoronar…»: l’immagine di Mussolini appeso per le gambe come a piazzale Loreto, «fa pensare ad un inserimento posteriore di questi versi nel corpo di una canzone che la Facchetti data al periodo successivo alla morte di Matteotti» (Avanti popolo!, fasc. 7, p. 123). Sempre sull’assassinio di Matteotti si potevano ascoltare altre canzoni: Sulla sponda argentina (G. Salviucci Marini) e Corso Regina Coeli c’è una salita (E. Esposito-E. Cuppone), in Avanti popolo! (fasc. 7, pp. 122-123). Canta di Matteotti (anonimo), registrazione raccolta da Ernesto de Martino ad Alfonsine (Ravenna) il 20 ottobre 1951, da un informatore ignoto, canta Michele L. Straniero. Povero Matteotti (I) e Povero Matteotti (II), in Settimelli-Falavolti, cit., pp. 85-88. Ma una delle più note ed efficaci parodie di Giovinezza! fu sicuramente quella dal titolo Giovinezza pé ‘n tal cü (Giovinezza, scarpate nel culo - Anonimo): «Giovinezza, pé ‘n tal cü, giovinezza, pé ‘n tal cü / Primavera di gaiezza, pé ‘n tal cü / Il fascismo è la schifezza, pé ‘n tal cü / Della nostra libertà, pé ‘n tal cü…»; le mondine nelle risaie, e le operaie in fabbrica, mettendola in burla con diffusa ironia, la cantarono fino al 1935: registrazione di Cesare Bermani, Lumellogno (Novara), ottobre 1963, canta Fenisia Baldini (cfr. Avanti Popolo!, fasc. 7, p. 123). Altro tipo di varianti, naturalmente, furono apportate al testo di Giovinezza!. Già nel 1919 i legionari della marcia su Ronchi cantarono Fiume o morte. Nel 1921 i fascisti milanesi intonarono Mussolini, salvatore, quando il duce cadde nel campo di Arcore con l’aeroplano. Ed ancora Oggi son tutti fascisti, canzone della “vecchia guardia”. Inoltre C’è chi vuole andare in Russia: «C’è chi vuole andare in Russia / Da Lenin ci si sta bene / Mangia senza lavorare e non soffre tante pene…» e Siamo pronti: «Siamo pronti ed inquadrati / Non temiamo l’imboscata / De’ bolscevichi dannati / Perché siam la “Disperata”…». Anche le italiche fanciulle cantarono sull’aria di Giovinezza!: «Disprezziam gli svenimenti / Le pettegole volgari / Le megere delinquenti / Che han per sangue avidità…». Sulla stessa aria si snodava l’inno dei “sempre pronti”, Fiamma Azzurra, del 1922; la fissità dei tipi e dei temi diveniva, in quel caso, limitatezza artistica; il canto era abbandonato alle esigenze pratiche, con lo scopo di strappare il consenso a sempre più vasti strati della popolazione; il modo di porgere le rime era superficiale, c’erano soltanto una grande abilità teatrale, il solito gioco di mezzi attinti alla psicologia più spicciola e la conoscenza dei meccanismi della scena: «Sopra il nostro fermo petto / Spazia l’aquila imperiale / Sull’azzurro gagliardetto / Raggia un simbolo ideale…»; si combatteva il “tradimento”, si disperdeva la “suburra”, si contrastavano gli uomini “nefasti che spregiano i nostri morti”; erano presenti gagliardetti, manipoli ed il destino del domani d’Italia, che era, doveva essere, «Oltre l’Alpe ed oltre il mare…», per i Savoia e per il re. Cominciarono ad apparire, all’inizio degli anni Venti, anche i vagheggiamenti di una presunta superiorità morale e di una presunta integrità spirituale e politica degli italiani e dei fascisti, che sarebbero scaturite in modo del tutto naturale dalla diuturna lotta che i “marciatori” in camicia nera venivano portando contro i «vigliacchi comunisti», appartenenti ad una società considerata inferiore: ed infatti il popolo italiano non aveva forse dimostrato di essere – tolte «esigue selezioni di pervertiti urbani e suburbani e tolte poche centinaia di demagoghi» – fra tutti i popoli d’Europa, quello che presentava una maggiore resistenza al concretarsi delle «idee russe»? Esso era per eccellenza “antirusso”, «per la sua sanità morale, per la sua sanità fisica, e soprattutto per una cospicua dose di solido buon senso, fatto di un provvidenziale equilibrio... Il popolo italiano è incapace di seriamente e profondamente ammalarsi di ideologie…» (E. Corradini, Disordini, scioperi, bolscevismo, ma popolo sano, in “Il Carroccio”, 16 luglio 1919). Sempre sull’aria di Giovinezza! si librava il Canto delle donne fasciste, del 1923, intriso di fanatismo, come se ne vedranno moltissimi in seguito; tono, flusso e musica identici alla matrice; cambiavano solo le parole, prova che il regime prendeva il suo tornaconto dovunque lo si trovasse e si serviva dell’aria musicale di un inno – che aveva riscosso grandi consensi popolari – come materia grezza con la quale creare qualcosa di nuovo. Faceva la sua prima, timida apparizione una sorta di “femminismo” ante-litteram, ben presto rinnegato dal regime: «Cosa importa se siam donne? / Non alberga in noi paura / Né c’intralciano le gonne / Nella lotta santa e pura…». Il livello era complessivamente mediocre; evidentemente non bastavano i riferimenti agli odiati «comunisti» a dar vigore al canto: «Su venite comunisti / A sfogar le vostre ire / Come i martiri fascisti / Anche noi sappiam morire…»; erano ancora presenti – sarebbero ben presto scomparsi – toni anticlericali: «Le beghine disprezziamo / Che non han niente di pio…»; il tutto si concludeva con il ritornello «Giovinezza, giovinezza…». Si cominciava già a sentire il bisogno di una profonda revisione della struttura organizzativa musicale e degli strumenti per la ricerca di nuovi motivi, di nuove canzoni, revisione che, verosimilmente, prenderà l’avvio alla fine degli anni Venti. Giacomo De Marzi |
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