L'ETA' GIOLITTIANA
Riportiamo la parte principale dell'inserto uscito su AREA
N. 45, MARZO 2000, completo di bibliografia tradizionale e di "sitografia".
Gli inserti, a cura dello storico Marco Cimmino, fanno parte di
una serie pubblicata mensilmente su AREA, per fornire uno strumento di
aggiornamento sul '900 per le scuole dell'obbligo. L'inserto
originale, pubblicato su AREA, è completo di ricca iconografia,
apparato didattico compresi test di autovalutazione con soluzioni, suggerimenti
di temi da svolgere, etc.
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DAL DISASTRO DI ADUA AL RITORNO DI GIOLITTI
La battaglia di Adua (1896), il più clamoroso
disastro militare che una nazione occidentale abbia mai subito in una guerra
coloniale, e che costò all'Italia, in termini di perdite, più
delle guerre risorgimentali, ebbe un solo risvolto positivo: la caduta
del governo presieduto da Francesco Crispi.
Rimesso in sella dagli scandali finanziari, don
Ciccio dovette levare le tende, sull'onda dello choc dovuto alla sconfitta
abissina del generale Baratieri, nonché della minaccia, ventilata
da parte di Giovanni Giolitti fin dal '95, di produrre un dossier da cui
sarebbe emerso un coinvolgimento del politico siciliano proprio nello scandalo
della Banca Romana.
Non esitiamo a crederlo, data la sicura commistione
d'interessi tra il gruppo di potere crispino e i "signori dell'acciaio",
che all'istituto di credito erano strettamente legati.
Comunque sia, divenne capo del governo Antonio di
Rudinì , che, almeno all'inizio, parve intraprendere una politica
meno autoritaria e repressiva di quella del suo predecessore, introducendo
blande riforme sociali, come l'assicurazione obbligatoria per gli infortuni
sul lavoro, o amnistiando qualche protagonista della rivolta dei Fasci
Sicilani, che Crispi aveva schiacciato brutalmente, tra il 1893 ed il 1894,
anno in cui venne anche messo fuori legge, fino al'96, il Partito Socialista
dei Lavoratori Italiani (poi PSI), come organizzazione sovversiva.
Un aumento improvviso del costo del pane, dovuto
ad un cattivo raccolto di grano, nel 1897, fu la buccia di banana su cui
scivolò il primo ministro: di fronte ai disordini e ai saccheggi
del popolo, esasperato dalla fame, Rudinì proclamò
lo stato d'assedio a Napoli, Firenze e Milano.
Proprio a Milano, il plenipotenziario, generale
Bava Beccaris, il 7 maggio del '98, fece sparare l'artiglieria sui dimostranti:
un'ottantina di morti restarono sul selciato e il re Umberto I, pensò
bene di decorare il suo fedele soldato con l'ordine militare di Savoia;
gesto questo che gli sarebbe costato caro.
Naturalmente, a questo atto di gratuita brutalità,
molto Vej Piemont, le forze riformiste (le chiameremo, d'ora in poi, per
comodità "le sinistre") insorsero contro Rudinì,
accusato di aver adottato misure contrarie ai principi basilari della libertà.
Anche i conservatori operarono per fare dimettere
il presidente del consiglio, reo, secondo loro, di scarsa intraprendenza
e tempestività nella repressione: se fosse intervenuto subito (questa
era l'accusa) non si sarebbe giunti alle cannonate in piazza.
Tutto pareva spianare la strada ad una gloriosa
rentrée di Giolitti, già primo ministro nel '92 ed esponente
di spicco di un riformismo moderato che si riconosceva nel liberalismo
progressista, ma il re decise altrimenti ed assegnò l'incarico ad
un suo generale, Luigi Pelloux, che il parlamento non avrebbe voluto neppure
come addetto alle corvées.
Anche Pelloux, secondo ed ultimo esponente di quei
governi che la storia ricorda come "governi della sciabola",
recitò all'inizio il ruolo del pacificatore, smorzando le iniziative
poliziesche del De Rudinì, ma, poi, si diede da fare per confermare
l'adagio che recita: "xe pezo el tacon del buso", proponendo
una serie di illuminate riforme quali la restrizione del diritto di sciopero,
di riunione e di associazione, o l'allargamento della censura sulla stampa.
Unico risultato dei tentativi di liberticidio legale
del Pelloux fu la nascita di una prassi parlamentare, ad opera della sinistra,
che sarebbe divenuta assai popolare in tempi più prossimi a noi:
l'ostruzionismo; nonché lo schieramento all'opposizione di molti
nomi di spicco del liberalismo, tra cui Zanardelli e lo stesso Giolitti.
Le elezioni del giugno 1900 diedero a Pelloux una
maggioranza assai risicata e, date le abitudini trasformiste del nostro
parlamento, certo non tale da garantire buone possibilità di governo,
così egli decise di cedere il passo e la poltrona al presidente
del Senato, Giuseppe Saracco, moderatissimo liberale.
Il governo di Saracco durò solo qualche mese
ed è ricordato per i suoi tentennamenti, oltrechè per aver
assistito al regicidio di Umberto I, assassinato a Monza, il 29 luglio
del 1900, dall'anarchico Bresci, venuto apposta dagli Stati Uniti a vendicare
i caduti di Milano e le decorazioni di Bava Beccaris.
Dopo la morte di un re che gli agiografi, non trovando
niente di meglio, felicitarono dell'aggettivo "buono", che vuol
dire tutto e niente, il suo successore Vittorio Emanuele III, inaugurò
il proprio regno affidando l'incarico di presiedere il consiglio dei ministri
all'insigne giurista liberale Giuseppe Zanardelli, il padre del nuovo codice
penale, che affidò il dicastero degli Interni proprio a Giolitti,
quasi ad indicarlo come suo alter ego e (evidentemente) successore in pectore.
Dopo nemmeno tre anni (novembre 1903) dal suo insediamento,
Zanardelli si dimise per motivi di salute: nulla poteva ormai impedire
l'ascesa definitiva di Giovanni Giolitti; e, infatti, il politico di Dronero
subentrò al suo mentore.
Lo statista piemontese sarebbe rimasto al governo,
quasi ininterrottamente, fino alla vigilia della Grande Guerra, dando all'Italia
quell'impronta e quel carattere che prendono il nome di Età Giolittiana.
L'ETA' GIOLITTIANA
L'Italia che Giolitti si trovò a governare
non era certo un paese prospero o tranquillo, nonostante le enormi potenzialità
che si erano già manifestate: alcune occasioni, come quella di diventare
il porto d'Europa verso il sud-est, dopo l'apertura del canale di Suez
(1869), erano già per buona parte sfumate; l'emigrazione era una
piaga enorme, l'analfabetismo interessava ancora quasi il cinquanta per
cento degli adulti, la rivolta sociale minacciava di scoppiare ad ogni
giro di vite: bisognava costruire infrastrutture, trovare sbocchi lavorativi,
pacificare la società.
L'Italia, a differenza di quasi tutti i paesi europei,
non possedeva, salvo la modestissima Somalia, annessa nel 1905, colonie
da cui attingere materie prime a basso costo e verso cui deviare le grandi
masse, soprattutto contadine, di disoccupati o sottoccupati; non aveva
carbone e la sua agricoltura, salvo alcune zone particolari del Paese,
era ad uno stadio arretrato: in seguito al trattato del Bardo, con cui
la Francia, di fatto, si annettè la Tunisia (1881) e ad un'aspra
contesa economica coi transalpini, il governo italiano, nel 1882, aveva
aderito ad un'alleanza difensiva con l'Austria Ungheria e con l'impero
germanico, di cui re Umberto I era grande ammiratore, ma questa alleanza
non riscuoteva grandi entusiasmi nella popolazione, cresciuta nel culto
della lotta risorgimentale contro il "nemico ereditario" e risultava,
in termini di politica estera, poco fruttifera per il nostro Paese.
Inoltre, il nostro era uno stato giovane, scarsamente
omogeneo nella popolazione e politicamente poco evoluto; insomma, Giolitti
avrebbe dovuto mettere le mani in un bel gomitolo di problemi.
Ma quello che sarebbe divenuto il "boja labbrone",
aveva le idee chiare, oltre che un fiuto rabdomantico per mantenere la
poltrona; si può ammirare o disprezzare Giolitti per una serie di
motivi, ma un fatto è certo: confronto ai presidenti del consiglio
dei nostri giorni, la sua fu una generazione di giganti!
La prima cosa che Giolitti fece, fu di prendere
atto dell'esistenza di un cambiamento in corso nel Paese, dovuto alla crescita
industriale: da una parte erano mutati i presupposti stessi dei rapporti
di lavoro, dall'altra, masse sempre più imponenti di lavoratori
premevano per avere una maggiore importanza come soggetto politico e per
ottenere riforme sociali, aderendo compattamente al Partito Socialista.
Il primo ministro comprese che queste forze politiche
non potevano essere, semplicemente, bollate di sovversivismo e, quindi
represse duramente: era necessario che entrassero, debitamente emendate
dei loro aspetti più eversivi, nel sistema liberale giolittiano.
Era la quadratura del cerchio: da una parte la rinuncia
all'utilizzo della forza contro le manifestazioni dei lavoratori, sancita
dall'atteggiamento del governo in occasione del primo sciopero generale
italiano (1904), smorzò l'esasperazione delle sinistre e, dall'altra,
gli imprenditori illuminati videro in questo paternalismo umanitario la
valvola di sfogo che li preservava da problemi maggiori.
Agli imprenditori meno illuminati non restava che
assoldare i loro freikorps privati, per reprimere, per così dire,
in proprio, le manifestazioni sindacali: si tratta di un precedente interessante,
che trovò larga imitazione al tempo dello squadrismo fascista dell'immediato
dopoguerra.
L'idea chiave di questa posizione di Giolitti verso
il rapporto tra datori di lavoro e dipendenti prende il nome di "neutralità
statale"; essa postulava il non intervento dello stato nella contrattazione
tra domanda ed offerta di lavoro, che dovevano misurarsi solo sul piede
di un libero mercato, unico fattore a determinare i salari.
Psicologicamente, così, agli occhi del proletariato
chi era colpevole di eventuali nequizie salariali non poteva essere lo
Stato: Giolitti indicava ai lavoratori nuovi nemici; non era più
il tempo di Bava Beccaris!
Il Partito Socialista, nel frattempo, doveva risolvere
una grave crisi interna, che descriviamo un po' sbrigativamente come il
contrasto tra i cosiddetti "rivoluzionari", che sostenevano la
via dal basso al riscatto sociale del proletariato, ed i "riformisti",
che credevano in una possibilità parlamentare di cambiamento della
società.
Questi ultimi erano l'interlocutore privilegiato
di Giolitti, e, in particolare, il loro leader Filippo Turati, cui Giolitti
propose a più riprese di fare parte del suo governo.
Per evitare di giungere a quella scissione che,
inevitabilmente, poi ci fu, Turati non accettò l'offerta del primo
ministro, pur condividendone l'impostazione politica: lui, Treves, Bonomi,
Bissolati e, in definitiva, coloro che erano l'incarnazione di un socialismo
democratico, si avviavano, inevitabilmente, ad una sconfitta contro chi
li voleva superare a sinistra, come Serrati, Lazzari o il rampante dirigente
rivoluzionario Benito Mussolini, che sarebbe stato l'autore dell'OdG che
li espelleva dal partito, in occasione del congresso di Reggio Emilia,
nel 1912, con il plauso di Lenin.
Se i Socialisti litigavano su tutto, neppure per
Giolitti, comunque, erano tutte rose e fiori, poiché egli doveva
perennemente barcamenarsi (attività in cui eccelleva) tra le tensioni
delle sinistre e le preoccupazioni dei moderati: questo, senza dubbio,
rappresentò un forte vincolo alla sua attività riformista
e causò il formarsi di un atteggiamento,a noi, purtroppo, ben noto,
per il quale, più dell'attuazione dei programmi, contava il tenere
unita una maggioranza che appoggiasse il governo, pur indossando la giubba
di Arlecchino: dopo il no di Turati, Giolitti si spostò verso il
moderatismo, strizzando l'occhio ai radicali.
Nel panorama politico italiano, tuttavia, aleggiava
l'ombra di un convitato di pietra, che ufficialmente non era un soggetto
politico, ma che lo sarebbe ben presto divenuto e che rappresentava una
larga fetta di elettorato potenziale: il mondo cattolico.
L'Italia risorgimentale fu, senza dubbio, dominata
dal laicismo, spesso dalla massoneria e, qualche volta, dal vero e proprio
anticlericalismo: da una parte c'erano i Savoia, che avevano violato lo
Stato della Chiesa e che avevano costretto il pontefice a rinchiudersi
nelle mura leonine, cui si contrapponeva il "non expedit", il
divieto per i cattolici di partecipare alla vita politica italiana.
L'intransigenza pontificia verso i re d'Italia,
però, vuoi per le guarentigie, vuoi perché i tempi cambiano,
andava addolcendosi, e, già nel 1904, Papa Pio X aveva concesso,
per arginare i successi socialisti, ai cattolici di alcuni collegi di votare
per i liberali: si trattava di un passo modesto, ma, in proiezione, di
grande importanza.
Al posto delle organizzazioni di cattolici più
intransigenti iniziò ad affermarsi l'Azione Cattolica, di posizioni
assai più vicine al sociale (ed al politico), mentre don Luigi Sturzo
poneva le basi per la nascita del Partito Popolare, che sarebbe divenuto
il punto di riferimento dell'elettorato cattolico italiano.
Il rientro ufficiale dell'elettorato cattolico in
politica fu sancito da un patto che impegnava i liberali, eletti in parlamento
coi voti dei cattolici, ad opporsi ad ogni iniziativa legislativa contraria
alla morale cattolica: dal nome del suo ideatore, questo patto fu noto
come "patto Gentiloni"e venne applicato in occasione delle prime
elezioni politiche a suffragio universale maschile, nel 1913.
Nel frattempo, Giolitti cercava di dare la propria
impronta al Paese, mettendo, però, anche in luce quei limiti che
la situazione politica poneva alle sue riforme.
La politica estera vide un riavvicinamento progressivo
alla Francia, iniziato nel 1902 con gli accordi Prinetti-Delcassé,
che mise in posizione traballante la Triplice Alleanza e, se vogliamo,
pose le premesse del Patto di Londra del 1915, che segnò lo schieramento
dell'Italia accanto alle potenze dell'Intesa.
Il progetto di risanamento del Mezzogiorno si limitò
ad una serie di leggi speciali (niente di nuovo, insomma) che non dovevano
assolutamente ledere gli interessi dei conservatori, che erano l'espressione
della classe dominante meridionale, legata al latifondismo e con cui il
primo ministro tessè rapporti non sempre adamantini.
Quando, poi, mise mano alle infrastrutture,
Giolitti dovette mandare avanti un suo prestanome, Alessandro Fortis, che
governò tra il 1905 ed il 1906, giusto in tempo per fare approvare
la legge di nazionalizzazione delle ferrovie, compreso un articolo che
vietava lo sciopero dei ferrovieri, e raccogliere insulti e proteste del
personale ferroviario, cui rispose con la forza pubblica: il timoniere
di Dronero non si era sporcato le mani neppure questa volta.
Nel febbraio 1906, salì al potere il combattivo
livornese Sidney Sonnino, capo dei liberali non giolittiani, quello dell'inchiesta
con Jacini sulle reali condizioni dell'agricoltura nel Mezzogiorno, che
subito propose delle incisive (a dir poco) riforme, a base di bonifiche,
ridistribuzione di terre, ridiscussione dei patti agrari eccetera; con
quale entusiasmo delle baronie meridionali è facile immaginare.
A maggio, Sonnino era già giubilato, a favore
del ritorno in pompa magna di Giolitti, che sedette sullo scranno di primo
ministro per quarantadue mesi filati, fino al dicembre del 1909.
Principale atto di governo di questi anni fu la
diminuzione dei tassi d'interesse sui titoli di Stato, che permise di diminuire
il debito pubblico: la legge sulla conversione della rendita.
Quando Giolitti, però, ripropose il
suo vecchio progetto sulla tassazione progressiva dei redditi, che già
aveva dovuto accantonare nel 1903, il Parlamento esplose ( a riprova del
fatto che, quando si tocca il portafoglio, sono tutti d'accordo), e riapparve
Sonnino (visto da tutti come l'antigiolitti per antonomasia) che fece il
solito "mordi e fuggi", visto che fu sostituito solo tre mesi
dopo dall'economista Luigi Luzzatti, che, a sua volta, lasciò il
posto ad un quarto governo Giolitti, nel marzo del 1911, caratterizzato
da una più marcata impronta riformista.
Fu questo governo che s'imbarcò nell'impresa
libica, anche se il primo ministro, personalmente, non ne era affatto convinto.
Lo costrinsero alla guerra contro la Turchia le
pressioni dei nazionalisti, capeggiati da Enrico Corradini, che chiedevano
per l'Italia "un posto a sole"( e l'ultimo disponibile era, appunto,
la Libia), e poi di quasi tutta l'opinione pubblica, socialisti rivoluzionari
esclusi, che vedeva nella conquista del paese nordafricano la panacea per
i problemi del Paese.
Di fatto, chi ne trasse beneficio furono soprattutto
i grandi industriali, che fabbricavano le armi ed i mezzi che la guerra
assorbiva.
La Libia nel 1911 nascondeva ancora nel suo sottosuolo
quegli enormi giacimenti di petrolio che ne avrebbero determinato la ricchezza
e, in termini coloniali, l'appetibilità: per molti era solo uno
"scatolone di sabbia", reso desiderabile unicamente da considerazioni
di politica coloniale in chiave antifrancese, dalle ambizioni imperialistiche
di un paese giovane e dalle utopie migratorie di chi vedeva nel paese nordafricano
la risposta ai milioni di italiani costretti a migrare verso le Americhe
o l'Australia.
D'altra parte, anche quando le truppe dell'Asse
arrivarono ad arrestare la propria offensiva ad Alamein, nel 1942, afflitte
da una terribile penuria di carburante, una sorte ironica le faceva transitare
per la via Balbia sopra alcuni dei depositi petroliferi più cospicui
del mondo, senza che nessuno ne sospettasse l'esistenza!
Dei giorni della polemica sull'intervento o meno
dell'Italia in Libia, quando il governo non assumeva una posizione chiara
a riguardo, è la nascita del mito di un Giolitti espressione
vivente dell'Italietta, un paese mediocre, incapace di grandi progetti
e grandi imprese, governato da un primo ministro vile e sornione; immagine
che avrà grande fortuna nel periodo fascista ed oltre.
Più per conservarsi la poltrona che per un
reale convincimento politico, Giolitti ruppe gli indugi e, subissato di
contumelie da parte socialista, dichiarò guerra all'Impero Ottomano
e fece sbarcare le truppe a Tripoli, il 29 settembre del 1911.
Nel 1912, col trattato di Losanna, la Libia divenne
una colonia italiana, con in soprammercato Rodi e le isolette del Dodecaneso.
La guerra era tutt'altro che finita, però:
nell'interno del paese continuava una guerriglia che fu contrastata da
parte nostra con sistemi, a dir poco, sbrigativi, e che durò fino
agli anni Trenta.
Già durante il conflitto, comunque, i nostri
soldati si erano mostrati assai diversi da quel popolo di bonaccioni che
tanto dovette alla leggenda degli "Italiani brava gente": il
lancio di gas velenosi (da noi stigmatizzato, quando lo applicarono gli
austroungarici, sul San Michele, nella Grande Guerra) e le rappresaglie
contro obiettivi civili sono un'invenzione tutta italiana, che ebbe nella
guerra libica il suo laboratorio ideale.
Al di là di qualche assegnazione di terre,
perloppiù di difficile bonifica, tutto ciò che il proletariato
italiano ottenne dalla guerra di Libia fu, da una parte, di partecipare
alle prove generali di un dramma che l'avrebbe visto, di li a pochi anni,
protagonista sull'Isonzo e sul Carso, e dall'altra di ottenere, in nome
di un diritto acquisito combattendo, una legge che assegnava il diritto
di voto a tutti i maschi maggiorenni; legge, questa, voluta da Giolitti
per riconciliarsi con le sinistre, insorte, in nome del pacifismo, contro
la "gesta d'oltremare".
Nonostante questa dimostrazione di accondiscendenza,
la stella del politico piemontese si avviava al declino, e le elezioni
del 1913 non fecero che confermarlo, portando a Giolitti una maggioranza
estremamente eterogenea e divisa, tanto che, nel marzo del 1914, egli dovette
lasciare il posto ad un conservatore come Antonio Salandra, espressione
del liberalismo di destra.
In realtà, più che la fortuna politica
di Giovanni Giolitti, ciò che tramontava era la fiducia in un sistema
come quello democratico e liberale, che lui rappresentava: la guerra di
Libia aveva messo a nudo i limiti di una politica giocata con reti di alleanze
finalizzate alla sola conservazione del potere, portando alla ribalta una
politica più legata alla piazza, dominata dai tribuni, più
che dai diplomatici, e, soprattutto, in cui il conflitto sociale assumeva
toni di aperto scontro, che presero nelle manifestazioni della "settimana
rossa", del giugno 1914, i connotati di una vera e propria insurrezione.
L'attentato di Serajevo, pochi giorni dopo (28 giugno
1914), avrebbe catalizzato l'attenzione del mondo, spezzando la Belle Epoque
e dando il via ad uno dei più spaventosi conflitti della storia:
con l'Italietta giolittiana, tramontava tutto un mondo, fatto di eleganza
ed ingiustizia, che per secoli aveva caratterizzato l'Europa.
Al loro risveglio, dopo l'immane catastrofe, i cittadini
europei avrebbero constatato che nulla era più lo stesso.
SITOGRAFIA E BIBLIOGRAFIA
Non si ha qui, naturalmente, la pretesa di esaurire
le possibilità offerte dalla rete per una ricerca storiografica
sul periodo in questione; semplicemente si intende in questa sede indicare
qualche sito che permetta di ottenere informazioni su fatti e personaggi
attinenti la storia dell'Età Giolittiana o che permetta di organizzarsi
i links per una ricerca personale, secondo lo stile di pellegrinaggio alle
fonti tipico della navigazione in rete.
Non sono stati indicati i siti più vasti
e di argomento storico generale (History Channel, History on Web, Time
Machine, Enciclopedia Britannica, Argos ecc.) perché onnipresenti
nelle indicazioni di links fatte da qualunque sito storico.
Dato che la maggioranza degli indirizzi è
straniera, i testi compaiono nella lingua del sito o in inglese: questo
obbliga gli storici che non l'avessero già fatto per ragioni professionali
ante-internet ad impararsi almeno l'inglese; il che non è un male,
anzi.
Cominciamo dai siti scolastici: c'è un bel
sito dell'I.T.C. “Riccati” di Treviso che contiene, alla voce Ipertesti
un documento sul Regno d'Italia dal 1861 al 1913; l'indirizzo è
www.evo.it/riccati/reitalia.
Un bell'esempio, invece, di databank universitario
è quello dell'Università Cattolica (www.unicatt.it/library/milano/BancheDati/BIBLIO1.HTM)
: alla voce Sistema Bibliotecario vi verrà , inoltre, fornito un
catalogo completo delle disponibilità per indirizzo dei corsi di
laurea, nonché un elenco di validi links di ricerca: per navigare
all'interno di questo sito, l'indirizzo è www.unicatt.it .
Un valido sito di servizio è rappresentato
dalla cronologia universale (ma più accurata per il '900) di www.cronologia.it
, che contiene anche una serie di gadget interessanti (cartoline p.es.).
Se si desidera un catalogo completo dei testi presenti
nelle varie biblioteche oxoniane, per una bibliografia ad altissimo livello,
il vostro sito è www.lib.ox.ac.uk/libraries , che non so quanto
vi servirà, ma è un gran bel sito!
Per informazioni di didattica della storia, storia
in internet, eventi eccetera, si consulti il sito del Dipartimento di Studi
Storici e Geografici dell'Università di Firenze, che contiene numerose
attrattive www.storia.unifi.it/iniziative.htm .
Per ricerche su testi a carattere giuridico-diplomatico,
rinviamo gli interessati al mastodontico “Progetto Avalon” dell'Università
di Yale, raccolta di pagine giuridiche universali www.yale.edu/lawweb/avalon/avalon.htm
.
Per avere cenni bibliografici su molti dei protagonisti
della storia dell'Età Giolittiana, come Giolitti stesso, Bava Beccaris
o Sidney Sonnino, vi invitiamo a cercare su di un motore di ricerca indicando
il loro nome: teniamo ad avvertirvi, però, che le biografie in rete,
sono, perloppiù assai sintetiche e modeste (Encarta, Sample Biography
, Mnemosyne eccetera), quindi, se vi servono informazioni approfondite,
è meglio che vi dedichiate a pubblicazioni a carattere monografico.
Un'interessante miniera d'informazioni è,
invece, rappresentata dalla raccolta degli atti parlamentari: biografie
ed atti sono reperibili nel sito dell'Istituto di Discipline Giuridiche
del CNR all'indirizzo www.idg.fi.cnr.it , oppure rivolgendosi al supersito
(tanto paghiamo noi) della Camera dei Deputati, www.camera.it .
Buona navigazione!
Bibliografia
· S.Romano, Giolitti, Bompiani
· G.Barraclough, Guida alla storia contemporanea,
Laterza
· E.Ragionieri (a cura di), L'Italia giudicata,
Einaudi
· G.Giorgetti, Contadini e proprietari nell'Italia
moderna, Einaudi
· R.Romeo, dal Piemonte sabaudo all'Italia
liberale, Einaudi
· M.Salvadori, Storia dell'Età Contemporanea,
Loescher
· P. Villani, trionfo e crollo del predominio
europeo, Il Mulino
· Storia d'Italia/Storia d'Europa, L'Età
Contemporanea, Einaudi
· R. De Felice, Mussolini il rivoluzionario
(1883-1920), Einaudi
VERSO LA GRANDE GUERRA
>
ALL'INDICE DEGLI INSERTI DELLA STORIA DEL '900
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