LA II GUERRA MONDIALE - II PARTE
Riportiamo la parte principale dell'inserto uscito su AREA
N. 53, DICEMBRE 2000, completo di bibliografia tradizionale e di
"sitografia".
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IL MONDO IN GUERRA (1940-1943)
1940
Con l’occupazione della Francia da parte dei tedeschi,
Hitler era padrone dell’Europa continentale: praticamente tutto il Vecchio
Continente, dalla Norvegia alla Sicilia e dalla Polonia a Capo Finisterre,
si trovava sotto l’egida dell’Asse. La Francia, dopo l’armistizio del 22
giugno, era per metà occupata dalla Wehrmacht e per metà
sottoposta al governo collaborazionista di Vichy; l’atteggiamento francese
non era chiaro e, se da una parte c’erano stati l’appello radiofonico di
De Gaulle (18 giugno) da Londra e, per conseguenza, la nascita della Francia
Libera, cui avevano aderito diverse colonie africane, dall’altra c’era
stato l’episodio vergognoso di Mers el-Kebir, nel quale le navi da battaglia
inglesi avevano, proditoriamente, attaccato la flotta francese nel porto
africano, dato che questa si rifiutava di consegnarsi, obbedendo alle disposizioni
dell’armistizio (3 luglio). Il sentimento antibritannico nelle colonie
francesi crebbe, in seguito a questo e ad altri episodi, come quello, di
pochi giorni successivo a Mers el-Kebir, dell’attacco alla corazzata Richelieu,
alla fonda a Dakar: l’intesa tra Francia Libera ed Inghilterra non fu,
fin dall’inizio, idilliaca, e su questi toni proseguì, fino alla
polemica sull’entrata a Parigi di Leclerc, nel ’44. Prova ne sia il fallimento
del tentativo di sbarco anglo-gaullista proprio a Dakar, il 23 settembre
del 1940, in cui il comandante della piazzaforte respinse con la forza
i sedicenti alleati.
Nel frattempo, Hitler aveva offerto alla Gran Bretagna
una pace a condizione, prontamente respinta dal ministro degli Esteri,
Lord Halifax (22 luglio); mentre gli stormi della Luftwaffe avevano già
cominciato a colpire obiettivi sul suolo inglese: iniziava la Battaglia
d’Inghilterra. A proposito di questo scontro leggendario tra le forze aeree
tedesche quelle inglesi, è opportuno sfatare qualche mito e chiarire
qualche concetto.
È probabilmente vero ciò che disse
Churchill a proposito della Battaglia d’Inghilterra, cioè che mai
tanti avevano dovuto tutto a tanto pochi, però, oltre ai valorosi
piloti della Royal Air Force, almeno tre elementi giocarono a favore dei
britannici in quei due fatali mesi, agosto e settembre del 1940, in cui
si decisero le sorti della guerra. Tanto per cominciare, gli inglesi possedevano
un sistema radar sulle coste che era già operativo e funzionava
egregiamente, il che permise loro di economizzare e dirigere sul bersaglio
gli interventi dei loro intercettori.
In secondo luogo, la loro industria aeronautica
lavorava a pieno regime nella produzione di caccia, mentre quella tedesca
tendeva a cambiare indirizzo ad ogni evoluzione del pensiero strategico
hitleriano.
Ultima, potentissima, atout nelle mani degli inglesi
era la presenza al vertice della Luftwaffe del Maresciallo del Reich, Hermann
Goering.
Egli, oltre a non avere azzeccato una sola scelta
strategica in tutto il conflitto, era rimasto contrariato, a suo tempo,
dai successi della Wehrmacht nella campagna di Francia, che avevano lasciato
un po’ in ombra la Luftwaffe; perciò, passò il suo tempo
a boicottare iniziative anfibie contro la Gran Bretagna, continuando a
promettere al Führer che la sola arma aerea avrebbe messo in ginocchio
gli inglesi, senza neppure degnarsi di andare a vedere coi propri occhi
cosa stava succedendo al fronte. Clamorosamente, proprio quando, ai primi
di settembre, i bombardamenti dei campi d’aviazione inglesi stavano per
piegare la resistenza della Raf, Goering optò per un cambio di tattica,
iniziando i bombardamenti di Londra, tanto spettacolari quanto, militarmente,
poco efficaci. Dato che la promessa di portare alla resa gli Inglesi bombardandoli
dal cielo non era stata mantenuta e che, vuoi per le condizioni della Manica,
vuoi per la presenza preoccupante della Home Fleet britannica, vuoi per
l’incoercibile timore di Hitler per le operazioni anfibie, l’operazione
Seeloewe, ossia lo sbarco tedesco in Inghilterra era stata, il 17 settembre,
"aggiornata" sine die dal Führer, l’autunno vide solo incursioni
terroristiche nei cieli britannici, come quella che, il 14 novembre, distrusse
per buona parte la città di Coventry: la Battaglia d’Inghilterra
era perduta. Ma i dispiaceri per i tedeschi non erano finiti: gli italiani,
in Africa, erano passati all’offensiva, conquistando la Somalia Britannica
(10 agosto) e scatenando un’offensiva nel Nordafrica contro le truppe del
generale Wavell (14 settembre); se non che Wavell, dopo un paio di mesi
di stasi, aveva ricacciato le truppe italiane, comandate da Graziani, in
Cirenaica; questo mentre gli Inglesi in A.O.I. avevano duramente contrattaccato,
penetrando in Eritrea ed in Somalia Italiana (gennaio 1941), liberando
la Somalia Brit. (marzo 1941) e costringendo il valoroso comandante italiano,
il Duca d’Aosta, alla capitolazione dell’Amba Alagi (18 maggio 1941). Come
se non bastasse, il 28 ottobre del 1940, Mussolini aveva attaccato la Grecia,
contando di fare una blitzkrieg balcanica.
La realtà, tragicamente diversa per i nostri
soldati, fu quella di un conflitto in un Paese montuoso, senza strade,
con un clima terribile e contro un nemico che stupì perfino i propri
alleati con la sua tenacia ed il suo valore.
1941
In Grecia, le nostre truppe, male equipaggiate e
peggio comandate, nonostante prodigi di eroismo, specialmente da parte
delle divisioni alpine, dovettero addirittura retrocedere, ed il conflitto,
spostatosi in Albania, rischiò di trasformarsi in un disastro.
Per evitare questo cataclisma sullo scenario balcanico,
contiguo a quello in cui, di lì a poco, Hitler avrebbe scatenato
l’operazione Barbarossa e, soprattutto, per salvare il suo amico Mussolini
da una terribile figuraccia, Hitler, il 6 aprile del 1941, attaccò
la Jugoslavia e la Grecia. Alla fine del mese, gli Iinglesi evacuarono,
dopo soli due mesi dal loro intervento a favore dei greci, il Paese balcanico,
che capitolò.
I preparativi di Barbarossa, però, erano
stati in tutta fretta posticipati, e questo significava dimezzare il tempo
utile per sconfiggere il colosso sovietico prima della stagione piovosa,
quella che in Ucraina, secondo un proverbio, "Con un cucchiaio d’acqua
produce un secchio di fango": nel 1941, la stagione delle grandi piogge,
in Russia, sarebbe cominciata il 10 ottobre!
In realtà, l’esercito italiano, pur composto
per buona parte da combattenti di prim’ordine, era del tutto inadeguato
in termini tecnici e strategici a fronteggiare una guerra su vasta scala:
gli aeroplani non avevano neppure sistemi radio efficienti, le navi non
avevano sistemi di puntamento telemetrici e radar, il che le rendeva vulnerabili,
soprattutto di notte, le armi individuali erano antiquate, non c’era un
solo modello di carro armato che potesse anche solo lontanamente competere
con gli equivalenti alleati, sia per peso che per armamento, i rifornimenti
erano tragicamente problematici, sia nei Balcani che in Africa; insomma,
tutto ciò che restava al fante italiano era il proprio valore. Questo
valore, purtroppo, rifulse soprattutto nella disperazione, e senza influire
sull’inevitabile esito dello scontro. A questo si deve aggiungere la quasi
proverbiale incapacità dei comandanti di grandi unità, che
faceva uno stridente contrasto col valore e la capacità dei comandanti
ai livelli più bassi, che, viceversa, furono tra i migliori dell’intero
conflitto. Che dire, per esempio, dello sciagurato comportamento dei nostri
ammiragli, che condussero la nostra bella squadra di Taranto ad una serie
di rovesci, di cui la beffa dell’aereosiluramento dell’11 novembre 1940,
che colpì la Cavour, la Duilio e la Littorio, cioè metà
della nostra flotta, alla fonda nel porto pugliese, non fu che il prologo?
La verità, tuttavia, è che l’entrata in guerra dell’Italia,
che, sulla carta, doveva rappresentare un aiuto notevolissimo per la Germania,
si rivelò quasi un peso, distogliendo truppe e materiali dai progetti
hitleriani.
Mentre i suoi U-boot falcidiavano i convogli alleati,
Hitler, intanto, si preparava a quello che sarebbe stato l’attacco più
poderoso della storia militare: quello alla Russia sovietica, che, fin
dai tempi del Mein Kampf, egli aveva prefigurato come dovere politico della
Germania nazionalsocialista e come necessità tedesca di Lebensraum.
Intanto, però, ai successi dei branchi sottomarini di Doenitz e
di Prien non corrisposero uguali successi delle unità di superficie:
il 27 maggio del 1941, la Kriegsmarine perse la sua ammiraglia, probabilmente
la più bella nave da battaglia mai costruita, la Bismarck, resa
ingovernabile dal siluro di uno Swordfish e, in seguito, affondata dai
cacciatorpediniere e dalle due navi di linea Rodney e George V, seicento
miglia ad ovest di Brest.
I pensieri di Hitler, però, erano tutti per
la grande impresa ad Est: almeno in apparenza, l’esercito germanico, galvanizzato
dai facili successi ad Occidente, era una macchina poderosa ed invincibile.
Il Führer diceva: "Il peggiore fante tedesco è superiore
al migliore fante straniero!". Questa macchina, però, era in
realtà assai meno potente di quanto non sembrasse a prima vista:
era raddoppiato il numero di divisioni corazzate rispetto all’inizio della
guerra, ma i carri erano scesi, in media, da 250 a 190 per divisione, e
l’industria tedesca non riusciva a produrre nemmeno la metà dei
600 carri mensili che aveva promesso. Hitler disponeva di circa 3.300 panzer,
che sono una bella cifra, ma che erano solo 700 mezzi in più rispetto
all’esercito che aveva invaso la Francia; e la Russia non era la Francia!
Più dell’ottanta per cento dell’esercito tedesco si muoveva ancora
a piedi e la stragrande maggioranza dell’artiglieria era ippotrainata:
ecco perché la terribile stagione del fango russo non doveva trovare
le truppe in manovra, ed ecco perché il ritardo dovuto alla conquista
dei Balcani si sarebbe rivelato determinante. La vastità del suolo
sovietico, infine, imponeva una schiacciante superiorità aerea;
invece, la flotta aerea sul fronte orientale, all’inizio di "Barbarossa",
avrebbe contato solo 720 caccia, 1.160 bombardieri e 120 ricognitori. Il
problema vero della macchina bellica hitleriana, però, è
sempre stato il carburante: i carri ne avevano per soli tre mesi di operazioni.
Hitler avrebbe dovuto pazientare almeno altri tre
anni, se voleva avere qualche possibilità di successo: invece, quella
che, all’inizio, parve una cavalcata trionfale, si trasformò in
un terribile calvario. Domenica 22 giugno 1941, tre diversi gruppi d’armate
tedeschi, comandati rispettivamente da Leeb (nord), Bock (centro) e Rundstedt
(sud), per un totale di circa tre milioni di uomini, scatenarono una poderosa
offensiva contro l’Urss.
Il 30 di giugno Leeb occupava la Lituania, Minsk
venne accerchiata; l’8 luglio Bock era al Dniepr, il 7 agosto l’accerchiamento
si estese a Smolensk, il 25 Leeb entrò a Tallin, in Estonia, e puntò
su Leningrado; Rundstedt invase l’Ucraina e puntò su Odessa, Gomel
fu accerchiata; il 19 settembre i tedeschi entrarono a Kiev. Nulla sembrava
poter arrestare questa serie impressionante di manovre a tenaglia, che
distrussero un’armata sovietica dopo l’altra; ma le armate di Stalin erano
almeno il triplo di quello che avevano preventivato gli strateghi dell’OKW.
Ormai, i grandi obiettivi di Hitler sembravano a portata di mano: Leningrado,
Mosca, Stalingrado ed i pozzi petroliferi del Sud.
I sovietici, invece, dopo aver perso Kharkov, Rostov
e la Crimea, contrattaccarono e, a dicembre, per la prima volta bloccarono
le truppe del Reich, a pochi chilometri da Mosca: il 19 dicembre, l’OKW
comunicò alle truppe l’ordine di fortificarsi per la stagione invernale.
Nella storia della Seconda guerra mondiale ci sono stati momenti topici,
in cui le cose avrebbero potuto volgere a favore dell’uno o dell’altro:
è quello che i tedeschi chiamavano Schwerpunkt, punto di gravità,
riferendosi a dove premere per far evolvere favorevolmente una battaglia;
certamente, uno di questi momenti fu il dicembre 1941, perché non
solo il sogno hitleriano di prendere Mosca prima dell’inverno fallì,
ma perché, dopo l’attacco giapponese a Pearl Harbour, il 7 dicembre
entrarono in guerra gli Stati Uniti, con il loro potenziale industriale
e militare del tutto inimmaginabile per le nazioni europee. Churchill aveva
vinto: egli aveva legato ogni sua scelta all’entrata in guerra degli Usa,
e quando questo fu un fatto compiuto, egli seppe che la guerra, presto
o tardi, sarebbe stata fatalmente vinta dagli Alleati. Per il momento,
però, ad un osservatore esterno, la situazione sarebbe apparsa disperata
per gli avversari dell’Asse: la flotta del pacifico americana era stata
messa fuori combattimento, Hitler era alle porte di Mosca e padrone dell’Europa,
gli inglesi in Africa erano stati respinti dalle truppe di Rommel; eppure,
proprio quando sembrava che l’Asse potesse farcela, perse la lena: non
ebbe più le energie per andare avanti, e, da quel momento, le truppe
tedesche, italiane e giapponesi cominciarono, lentamente, prima a fermarsi
e poi, inesorabilmente, ad indietreggiare.
1942
I successi nipponici in Estremo Oriente diedero
la medesima impressione di fulmineità e di inarrestabilità
di quelli tedeschi in Europa: un esercito valoroso e ben comandato, una
forza aerea di prima qualità ed una flotta grande e moderna permisero
ai soldati del Sol Levante di conquistare un enorme territorio in tempi
brevissimi.
Il tallone d’Achille dei giapponesi era la mancanza
di materie prime: dopo le loro conquiste del 1942, essi, in teoria, potevano
contare sulle enormi risorse dei territori conquistati, ma, di fatto, non
riuscirono a sfruttarle che in minima parte. Gli Stati Uniti, viceversa,
avevano subito un duro colpo, a Pearl Harbour, quando gli aerei della squadra
dell’ammiraglio Nagumo avevano fatto a pezzi le navi di linea statunitensi,
all’ancora nel porto hawaiano, ma le loro tre portaerei di squadra erano
sfuggite all’attacco, e la loro industria aveva cominciato a produrre mezzi
militari a pieno regime: il comandante della Marina imperiale, Yamamoto,
che ben conosceva lo spaventoso potenziale bellico americano, era uno dei
pochissimi che non avevano condiviso l’enorme entusiasmo che aveva pervaso
il Giappone dopo il successo di Pearl Harbour, ed i fatti, presto, gli
avrebbero dato ragione. Subito dopo lo scoppio della guerra, ancora nel
dicembre del 1941, i soldati del Tenno avevano occupato Bangkok e l’importantissima
base britannica di Hong Kong; nel gennaio del 1942, in sole quattro settimane,
i giapponesi occuparono la Malesia, presero Manila, sbarcarono nelle Molucche,
in Nuova Guinea e alle Celebes. Il 15 febbraio, capitolò la grande
base inglese di Singapore, con i suoi poderosi cannoni ridicolmente puntati
nella direzione opposta a quella dell’attacco nipponico; i giapponesi sbarcarono
nella Sonda e occuparono Giava (28 febbraio). Per tagliare definitivamente
fuori la Cina, i soldati imperiali invasero, poi, la Birmania: Rangoon
cadde il 7 marzo; due giorni dopo si arrendevano gli ultimi olandesi su
Giava.
In aprile si videro l’occupazione nipponica di Sumatra
(6) e la resa degli americani a Bataan, nelle Filippine. Tuttavia, il vento
stava già cambiando: il 7 di maggio i giapponesi subirono una prima
sconfitta aeronavale, nel Mar dei Coralli (anche se, in termini di perdite,
finì alla pari) e, il 18 dello stesso mese, Tokio subì l’onta
di un’incursione di bombardieri americani; ma la vera svolta si ebbe con
la battaglia delle Midway (3-5 giugno 1942), in cui le portaerei americane
ebbero la meglio sulle rivali giapponesi del solito Nagumo, affondandole
tutte e quattro e perdendo la sola Yorktown, già danneggiata nel
Mar dei Coralli. I giapponesi, in luglio e agosto sarebbero avanzati ancora,
occupando Guadalcanal, nelle Salomone; ma proprio da Guadalcanal sarebbe
partita la controffensiva statunitense, iniziata con il celebre sbarco
dell’Usmc (United States Marine Corp), il 7 di agosto. In Africa settentrionale,
il 1942 si era aperto con le forze dell’Asse che, dopo un’offensiva inglese
in novembre, che le aveva respinte entro Natale del 1941 fino a El-Agheila,
si preparavano a rispondere. Da El-Agheila, il 21 gennaio partì
una controffensiva di Rommel, che avrebbe portato le truppe italo-tedesche
a Bengasi (29 gennaio) e poi a Bir-Hakeim (10 febbraio), da cui, dopo una
lunga stasi operativa, sarebbe partito lo sforzo finale dell’Asse per arrivare
ad Alessandria. Il 27 maggio 1942, la Volpe del deserto calò il
suo gioco, varcò la frontiera egiziana e puntò decisamente
sul delta del Nilo, occupando Tobruk; lo slancio offensivo si esaurì
nei pressi della depressione di Qattara, dove i due eserciti si fronteggiarono
fino al 24 ottobre: la località di massima penetrazione si chiamava
"Due bandiere", in arabo El-Alamein. In Russia, nel frattempo,
dopo la lunga pausa invernale, era iniziato il ciclo operativo del 1942;
in Crimea, Manstein aveva sfondato: l’1 luglio cadde Sebastopoli. Da Kharkov,
Voronez e Rostov, l’esercito tedesco attaccò verso il fiume Don,
raggiungendo il Volga a Dubovka e toccando le difese perimetrali di Stalingrado,
il 20 luglio; il 27 agosto, la Wehrmacht era a 120 chilometri dal Caspio
e dalle sue immense riserve petrolifere, mentre, il 12 settembre, iniziava
la battaglia di Stalingrado. Una controffensiva sovietica, scattata il
19 novembre, accerchiò la 6a armata del Feldmaresciallo Von Paulus,
che si era impadronita di gran parte della città di Stalingrado;
a nulla valse il tentativo di Manstein di aprire un varco nella sacca che
circondava le truppe tedesche; in un clima polare e in condizioni da inferno
dantesco, gli uomini di Paulus andarono incontro all’annientamento, combattendo
oltre le umane possibilità. Goering aveva assicurato 500 tonnellate
al giorno di rifornimenti aerei per i soldati nella sacca: la media giornaliera
non avrebbe, invece, mai superato le 96 tonnellate, mentre la razione di
pane giornaliero sarebbe scesa a 50 grammi per soldato… e, poi, nemmeno
a quelli. Il 2 febbraio 1943 la 6a armata non esisteva più. Nell’immenso
dramma dell’inverno 1942-’43, non può non avere un posto a sé
la tragedia dell’Armir italiana, schierata sul Don, tra ungheresi e romeni.
Proprio questi ultimi cedettero di fronte ad un attacco corazzato sovietico,
il 18 novembre 1942; di qui sarebbe derivato l’enorme crollo che travolse
l’intero fronte e che vide gli italiani, nonostante il grande valore di
alcuni reparti, tra cui le tre divisioni alpine, Julia, Cuneense e Tridentina,
affrontare la terribile ritirata che costò quasi centomila uomini
all’armata italiana, sconsideratamente inviata nella steppa senza mezzi
di trasporto, con armi del tutto inadeguate e con un vestiario assolutamente
insufficiente. La fine del 1942 fu anche la fine delle speranze di vittoria
dell’Asse: sul fronte orientale l’esercito tedesco era tutt’altro che sconfitto
e, dopo un arretramento delle proprie posizioni, avrebbe avuto altri successi
tattici, ma le energie per ottenere la vittoria strategica erano esaurite;
la Germania non riusciva a rimpiazzare le proprie perdite, umane e di materiali,
mentre i sovietici continuavano a moltiplicare aerei, carri e cannoni,
anche grazie all’enorme aiuto fornito loro dagli Usa, che arrivarono a
trascurare, a favore della Russia, le forniture di materiali alle proprie
truppe nel Pacifico. Il 23 ottobre il comandante dell’8a armata britannica,
Montgomery, aveva sferrato un attacco poderoso ad El-Alamein ed era riuscito
a passare, nonostante l’incredibile eroismo dei difensori, tra i quali
brillò in modo particolare la divisione paracadustisti Folgore,
che si immolò letteralmente per contendere il terreno, metro per
metro, alle preponderanti forze alleate. Il 13 novembre Montgomery era
a Tobruk e il 20, cadeva Bengasi. In Africa l’anno si concluse con una
controffensiva di Rommel a El-Agheila, ma erano gli ultimi colpi di coda:
il 12 maggio del 1943 gli ultimi italiani e tedeschi, a Capo Bon, si sarebbero
arresi. La tappa successiva sarebbe stata la Sicilia.
< LA II GUERRA MONDIALE
I PARTE LA MAREA 1939-1940 *** LA II GUERRA
MONDIALE III PARTE >
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