LA II GUERRA MONDIALE - I PARTE
LA MAREA 1939-1949
Riportiamo la parte principale dell'inserto uscito su AREA
N. 52, NOVEMBRE 2000, completo di bibliografia tradizionale e di
"sitografia".
Gli inserti, a cura dello storico Marco Cimmino, fanno parte di
una serie pubblicata mensilmente su AREA, per fornire uno strumento di
aggiornamento sul '900 per le scuole dell'obbligo. L'inserto
originale, pubblicato su AREA, è completo di ricca iconografia,
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LA MAREA 1939-1940
Il potenziale militare tedesco nel 1939
Hitler si era meticolosamente preparato all’eventualità
della guerra, anche se andava dicendo ai suoi più stretti collaboratori,
compreso il Duce, che non sarebbe stato pronto militarmente (ed era vero)
prima del 1942-43.
Quello che però avrebbe potuto fare, nel
breve tempo a sua disposizione, l’aveva fatto: la Luftwaffe, l’arma aerea
che per molto tempo era vissuta in clandestinità, sotto le mentite
spoglie degli aeroclub privati, si stava dotando di una flotta di tutto
rispetto, collaudata nella guerra civile spagnola (la Legione Kondor).
Le scelte strategiche dell’aviazione militare, col
tempo, però, si rivelarono errate: si puntò sull’utilizzo
massiccio di bombardieri in picchiata (lo Ju 87, più celebre come
‘Stuka’) e di aeroplani da bombardamento medio-leggeri, come gli Ju 88,
i Do 17 o gli Heinkel 111; questa scelta, votata all’attacco al suolo di
truppe e mezzi corazzati, se potè rivelarsi molto valida contro
nemici aeronauticamente insignificanti, come i Repubblicani spagnoli o
i Polacchi, con un avversario duro ed organizzato come la Gran Bretagna,
contro cui si trattava di bombardare intere città, si dimostrò
perdente.
La Wehrmacht era ritornata ad essere un esercito
efficiente, in cui, ai vecchi generali di scuola "Potsdam" si
erano affiancati giovani e brillanti generali cresciuti nel culto della
mobilità e delle armi nuove, come Guderian, Manstein o i loro capi,
Kleist e Rundstedt.
La Kriegsmarine aveva una flotta sottomarina seconda
per cifre solo a quella italiana, ma certamente superiore per qualità
dei mezzi, mentre si stava potenziando la flotta di superficie con nuove
unità da battaglia (Bismarck e Tirpitz), potenti e
moderni incrociatori, come il Prinz Eugen e corazzate "tascabili",
come la Graf Von Spee, potentemente armate, ma di tonnellaggio limitato
per sfuggire alle clausole internazionali.
Inoltre, Hitler poteva contare su delle truppe combattenti d’élite,
le Waffen SS, bene armate, bene addestrate e di una fedeltà
a tutta prova.
E’ opportuno ricordare che queste Waffen SS
non devono essere confuse con le SS tradizionali, che avevano compiti di
polizia politica e segreta e, in seguito, di sterminio degli Ebrei e di
gestione dell’Olocausto nei campi di sterminio: le WSS erano reparti combattenti,
certo fortemente fanatizzati e politicizzati, ma il cui impegno fu quasi
costantemente militare.
All’inizio della campagna di Russia, tuttavia, l’RSHA,
l’Ufficio Centrale per la Sicurezza del Reich, in cui convergevano le forze
di polizia di Stato (Kripo, Gestapo) e quelle di partito (SD), che, in
pratica, era nelle mani del vice di Himmler, Heidrich, organizzò
il massacro sul posto degli abitanti ebrei delle zone occupate, contestualmente
all’avanzata dell’esercito: nel corso di questo genocidio itinerante (500.000
vittime nei primi sei mesi), nei quattro gruppi che seguivano a brevissima
distanza le truppe d’avanguardia e che sterminavano ebrei e partigiani
russi (Einsatzgruppen), vi era una consistente aliquota di WSS,
e, spesso, essi potevano contare sull’appoggio logistico della Wehrmacht.
Giova aggiungere che la Wehrmacht non aveva, solitamente, rapporti
particolarmente felici con le SS, che avevano,tra l’altro, propri gradi,
diversi da quelli tradizionali (esattamente come la MVSN fascista); anzi,
spesso, come vedremo nei prossimi inserti, proprio tra gli alti ufficiali
dell’Oberkommando Wehrmacht (OKW, d’ora in poi)maturarono
numerosi i complotti antinazisti.
In realtà, è molto difficile stabilire
le responsabilità generali di WSS ed esercito nell’effettuazione,
se non nell’organizzazione, dell’Olocausto; per lo più è
pratica storicamente corretta esaminare, laddove sia possibile, i singoli
casi e le relative responsabilità.
Per esempio, un Einsatzkommando, nel luglio 1941,
definiva l’esercito "gradevolmente ben disposto contro gli Ebrei"
(Erfreulich gute Einstellung gegen die Juden).
Si devono, inoltre, distinguere i Pogrom non di matrice tedesca, come
quello, terribile, del 28 ottobre 1941, che operarono i Romeni a Odessa.
Ma di tutto questo parleremo nel dettaglio in un
prossimo inserto.
Tornando ai preparativi per la guerra, se non era
pronto al 100%, nel 1939, Hitler poteva contare su di un esercito di tutto
rispetto, almeno per una guerra circoscritta nel tempo e nello spazio;
esattamente a questo pensavano all’OKW, quando si cominciò a parlare
di Blitzkrieg, di ‘guerra lampo’: d’altra parte, non erano state
fulminee le vittorie politiche del Nazismo?
L’occupazione incruenta dell’Austria e della Cecoslovacchia contribuì
certamente ad accrescere l’ottimismo di Hitler e la fiducia nei propri
mezzi; bisogna dire, però, che dall’altra parte della barricata
si stava colpevolmente sottovalutando il caporale di Braunau.
Gli Alleati nel 1939
Negli anni ’20, un generale francese del Genio reduce
da Verdun, André Maginot, sottopose al governo un progetto difensivo
della frontiera orientale della Francia, che tenesse conto dell’esperienza
fatta nella terribile battaglia d’arresto del 1916: un sistema flessibile
di forti, blockhaus, opere di scavo ed apprestamenti sotterranei, in grado
di resistere ad urti massicci di truppe e a bombardamenti pesanti e pesantissimi.
Nacque così la "Linea Maginot",
che, anche se il suo ideatore non fece in tempo a vederne il collaudo,
si rivelò uno dei più clamorosi buchi nell’acqua nella storia
delle opere campali, dato che i comandanti francesi guardarono a lei con
una fiducia cieca, abbandonando qualsiasi altra considerazione (a parte
un giovane generale di divisione di larghe vedute, che farneticava di carri
armati e di guerra manovrata: Charles De Gaulle): solo l’opinione pubblica
francese riuscì a fare peggio dei suoi strateghi, giudicando, con
icasticità tutta transalpina, la Linea assolutamente invalicabile,
nientemeno!
Il problema, come vedremo, fu che, se i generali educati a Saint-Cyr
erano ipnotizzati dalla loro idea fissa della "Maginot", i Tedeschi
non lo erano affatto, e, con praticità teutonica, decisero che se
la linea difensiva francese era davvero insuperabile, la cosa migliore
era quella di girarle attorno; il che, puntualmente, fecero.
Poco meglio erano messi gli Inglesi, che, rallentati
nel momento cruciale dalle manie di appeasement di Chamberlain,
erano ancora in alto mare, mentre Hitler invadeva la Boemia e Mussolini
si prendeva l’Albania (7 aprile 1939): l’Home Fleet era ancora la
marina militare più potente del mondo, ma l’esercito era poco numeroso
e male comandato e l’aviazione aveva da poco varato una massiccia operazione
di rafforzamento, con l’introduzione in linea di nuovi modelli di caccia
e di bombardieri.
Tuttavia, gli Inglesi, almeno sul versante difensivo, avevano un enorme
vantaggio rispetto agli alleati francesi: tra loro ed il Vecchio Continente
c’era di mezzo il mare e possedevano il Radar, che si sarebbe rivelato
cruciale quando, nell’estate del 1940, durante la Battaglia d’Inghilterra,
non c’erano abbastanza aerei per essere dappertutto e, perciò, bisognava
conoscere quantità ed esatta direzione delle formazioni nemiche.
Anche nel Regno Unito c’era chi, come Winston Churchill,
si sgolava sulle nuove armi e le nuove strategie ad esse legate, ma non
gli si dava troppo credito.
Certamente, se pensiamo al colossale granchio mussoliniano
sulla necessità o meno di costruire portaerei in Italia; o alla
scelta di puntare sui biplani per i caccia e sui trimotori per i bombardieri
fatta dall’aviazione italiana, o, infinitamente peggio, al costume folle
dell’industria aeronautica italiana di costruire modelli di velivoli simili
ma non compatibili tra loro in termini di ricambi, ci rendiamo conto del
fatto che, a posteriori, è facilissimo valutare le esigenze belliche
di un paese, ma che, viceversa, prevederle sia cosa difficile assai.
Per concludere, comunque, possiamo dire che il potenziale
militare degli Alleati era, nel 1939, quantitativamente pari o superiore
a quello tedesco, ma che gli era, invece, di molto inferiore in termini
qualitativi e, soprattutto, strategici, ancorato com’era ad un’idea di
difesa fissa che, come vedremo, permetterà a Hitler di mettere in
atto con tutto comodo il suo piano d’attacco.
Hitler e Stalin
Un dittatore ben difficilmente si fida di un collega:
sa perfettamente che l’autocrazia si fonda sulla paura, sull’inganno e
sul camaleontismo.
Hitler e Stalin non sfuggirono a questa regola:
i due non si fidavano l’uno dell’altro, ma si capirono benissimo quando
si trattò di fare a metà di una razzia.
Oggi, la storiografia corretta, glissa con imbarazzo
quando si pone la domanda fatidica: "Chi ha fatto scoppiare la seconda
guerra mondiale?".
Siamo certi che, se la stessa questione si ponesse,
alla vigilia degli esami di Stato, in una qualsiasi classe quinta di una
qualsiasi scuola superiore italiana, posto che l’insegnante, alla fine
dell’anno, fosse arrivato fin qui, il che è da dimostrare, la risposta
all’unisono sarebbe: "Hitler!".
Ahimè, sarebbe bello e comodo se le cose
fossero andate così: quante acrobazie retoriche di meno ci sarebbero,
a questo punto, sui manuali di storia!
Stalin costretto ad accordarsi con Hitler perché
non pronto alla guerra contro il male; Stalin che sperava di vedere riconosciuto
il legittimo possesso dell’Urss sulle repubbliche baltiche; Stalin tirato
per i baffi e per i capelli ad accettare l’alleanza nazista dalla sfiducia
delle democrazie occidentali….
Vogliamo dire com’è andata?
Due immensi delinquenti, ragionando da delinquenti,
si sono spartiti cinicamente dei territori la cui unica colpa era quella
di trovarsi vasi di coccio a viaggiare con vasi di ferro; e lo hanno fatto,
al di là di ogni altra considerazione, perché l’essenza del
loro potere era la stessa.
Così, sarà bene ricordare una volta
per tutte che la seconda guerra mondiale l’hanno dichiarata e fatta, concordemente,
i nazisti tedeschi ed i comunisti sovietici: mentre Hitler occupava la
Polonia da ovest, Stalin invadeva la Polonia da est, e con lei Estonia,
Lettonia e Lituania, considerate costole della madre Russia.
Dunque, se la diplomazia occidentale, isolandolo,
aveva gettato Mussolini nelle braccia di Hitler, fino alla firma del "Patto
d’Acciaio"(22 maggio 1939), che trasformava le dichiarazioni d’amicizia
dell’Asse Roma-Berlino in una vera alleanza militare, lo stesso aveva fatto
con Stalin, di cui (anche questo è bene lo si sappia) nessuno, ad
ovest della Berezina, si fidava.
Così, il 23 agosto 1939, in virtù di uno di quei miracoli
che solo nelle rarefatte sfere della diplomazia avvengono, i fucilatori
di Barcellona ed i bombardatori di Guernica si strinsero la mano (con quale
entusiasmo degli antifascisti, che avevano salutato in Stalin la diga contro
l’espansione nazifascista nel mondo, è facile immaginare); e siglarono
un patto di non aggressione che si chiamò patto Ribbentrop-Molotov,
dal nome dei due ministri degli esteri che, materialmente, lo stipularono
(non vi state sognando nulla: è proprio lo stesso Joachim von Ribbentrop
impiccato a Norimberga!).
In un protocollo che, per ovvi motivi, venne tenuto segreto, la Germania
dava il suo benestare all’occupazione sovietica di qualche sparuto paesetto
orientale, come, appunto, le repubbliche baltiche, la Finlandia, la Bessarabia
romena e, naturalmente, una bella fetta di Polonia.
Il Giappone
La crisi economica del ’29, che aveva messo in ginocchio
l’economia di mezzo mondo, non aveva certo risparmiato il Giappone, che,
proprio in quegli anni stava espandendosi commercialmente in Asia.
Naturalmente, le conseguenza della grande crisi pesarono moltissimo
su di un Paese a forte vocazione industriale, ma del tutto dipendente dall’esterno
per l’approvvigionamento di materie prime e, perciò, dai commerci
esteri.
Vedendo crollare il mercato dell’esportazione dei propri prodotti lavorati,
il Giappone si trovò nella necessità di riprendere a praticare
quella politica imperialista, che già era stata sua ai tempi della
guerra russo-giapponese del 1904, iniziando a conquistare
territori sul continente asiatico.
Questo, tra l’altro, nella logica del Mikado, avrebbe
risolto sia i problemi legati a materie prime e ad esportazione, che quelli
connessi con l’esplosione demografica.
Perciò, l’esercito giapponese passò
all’offensiva proprio da dove si era fermato, cioè dalla Manciuria.
Dalla fine della guerra contro la Russia, i Giapponesi occupavano stabilmente
la parte meridionale della Manciuria; non fu per loro difficile trovare
un pretesto per finire l’opera e, infatti, nel settembre del 1931, le truppe
del Sol Levante invasero i territori cinesi, proclamando, cinque mesi dopo,
il libero stato del Manciukuò, che, in realtà, era solo un
satellite nipponico.
Nel 1933, col pretesto della condanna da parte della Società
delle Nazioni per il suo attacco in Manciuria, il Giappone uscì
dalla SDN.
Fu, tuttavia, a partire dal 1936, anno fatale, che
i Nipponici iniziarono a fare sul serio, dopo un colpo di stato militare,
che trasformò il Mikado in una sorta di dittatura, salvo restando
il ruolo semidivino dell’imperatore; tra il 1936 ed il 1941, il Giappone
operò uno sforzo possente, dotandosi di forze armate addestratissime
e di mezzi aeronavali di prim’ordine, che sarebbero dovuti servire alla
conquista dei territori asiatici.
In Asia, però, c’erano già degli imperialisti
che sfruttavano le materie prime: gli europei.
Dovendo pestare i calli all’Europa, il Giappone
si trovò nella necessità di farsi anche qualche alleato in
Occidente, e la sua scelta cadde sui paesi politicamente più affini
ed economicamente con meno interessi in Estremo Oriente, ossia la Germania
e, per conseguenza, l’Italia; ben presto, si giunse alla firma del "patto
anticomintern", tra Giappone e Germania (novembre 1936).
Otto mesi dopo, nel luglio del 1937, il Giappone attaccò di
sorpresa la Cina, senza nemmeno scomodarsi a dichiarare la guerra e, in
breve, ne occupò le regioni più importanti.
In concomitanza con l’invasione giapponese, i nazionalisti
ed i comunisti cinesi, che stavano combattendo una guerra civile tra loro,
si misero d’accordo e formarono un "fronte nazionale", in chiave
antinipponica, riservandosi di riprendere a scannarsi a guerra finita (come,
infatti, accadde), ed iniziarono una guerriglia contro i Giapponesi che
durò, senza soluzione di continuità, fino alla fine della
seconda guerra mondiale.
Occupata la Cina, di fronte al Giappone si aprivano
le ricche colonie inglesi e olandesi, nonché l’intero oceano Pacifico,
che era, però, nella sfera d’interessi degli Usa: si trattava di
scegliere tra l’accontentarsi e l’affrontare una guerra.
Ma, come si sa, l’appetito vien mangiando…..
La marea ad Oriente
L’1 settembre del 1939, alle prime luci dell’alba,
le colonne motorizzate tedesche invadevano la Polonia, dietro il pretesto
di restituire alla madrepatria l’unico sbocco polacco al mare, il cosiddetto
"corridoio di Danzica", che divideva la Prussia occidentale da
quella orientale.
In realtà, era solo il primo atto del più
pauroso conflitto che la storia ricordi: la seconda guerra mondiale.
Questa volta, la reazione diplomatica di Francia ed Inghilterra non
si fece attendere, ed entrambe, il 3 settembre, dichiararono guerra alla
Germania; quarantotto ore dopo, USA e Giappone si proclamarono neutrali,
mentre l’Italia coniò, per definire il proprio atteggiamento, il
termine "non belligeranza".
In due settimane, in pratica, la guerra in Polonia
era finita, anche se si sarebbero dovuti aspettare i primi di ottobre per
la resa definitiva dell’esercito polacco: la Blitzkrieg concepita
dall’OKW si era mostrata efficace oltre le più rosee previsioni.
Il 17 settembre, intanto, l’Armata Rossa aveva invaso la Polonia orientale,
a scopo precauzionale; ossia per assicurarsi il rispetto tedesco delle
clausole segrete del patto Ribbentrop-Molotov.
Iniziava per la Polonia un terribile quinquennio
di occupazione nazista; fin dall’inizio, Tedeschi e Sovietici si diedero
da fare per sterminare la classe dirigente polacca, gli ufficiali dell’esercito,
gli intellettuali o anche solo chi sapeva leggere e scrivere.
Intanto si venivano radunando gli ebrei di Polonia, in vista della
Endlösung der Judenfrage, la soluzione finale del problema
ebraico: nemmeno un anno dopo, sarebbe stato aperto, proprio in Polonia,
il campo di sterminio di Auschwitz.
Dopo il crollo della Polonia, però, il cannone ad Est non tacque
a lungo: il 30 novembre del 1939, in un clima polare, l’Urss attaccò
la Finlandia, con il pretesto di alcune concessioni territoriali di frontiera.
I Finnici si batterono bene (e si sarebbero battuti
bene anche in seguito, da alleati dei Tedeschi, sul fronte di Karelia e
a Leningrado) e solo tre mesi dopo, il 12 marzo 1940, si arresero e cedettero
ai Sovietici i territori fonte di contesa, conservando, tuttavia, la propria
indipendenza.
Diversamente andò alle repubbliche baltiche,
occupate dall’Armata Rossa nella primavera del 1940.
Mentre Francia ed Inghilterra, sul fronte occidentale,
giocavano alle belle statuine, Hitler, il 9 aprile del ’40, attaccò
di sorpresa la Danimarca (che ebbe, per tutta l’occupazione, uno status
privilegiato) e la Norvegia (che faceva gola, per via delle sue miniere
di ferro, anche agli Inglesi, che, però si mossero tardi), conquistandole
in un paio di mesi.
La marea ad Occidente
Attaccando la Polonia con praticamente tutte le
forze a sua disposizione, Hitler aveva rischiato grosso: solo poche divisioni
erano rimaste a presidiare la linea Siegfried, che fronteggiava
la francese Maginot, come Davide con Golia.
Godendo di una superiorità schiacciante, gli Alleati avrebbero
potuto facilmente sfondare il velo difensivo tedesco e puntare, indisturbati,
sulla Saar e sulla Ruhr, che erano il cuore industriale della Germania:
le forze contrapposte erano dell’ordine di venti a uno in loro favore,
durante i giorni cruciali dell’attacco ad oriente.
Il Fuehrer lo sapeva benissimo, e pregò che
il suo bluff non venisse chiamato: un poco alla volta, sottrasse truppe
all’ormai risolta campagna di Polonia e le avviò al Reno.
Intanto, gli Alleati non si decidevano ad intervenire
e, benchè la guerra fosse stata dichiarata a tutti gli effetti,
per mesi, sul fronte occidentale non si sparò che qualche colpo
di fucile, tra le due linee contrapposte: era la drôle de guerre,
la guerra matta, in cui l’Europa rimase col fiato sospeso per ben otto
mesi, che, nelle speranze degli Alleati, avrebbero dovuto piegare l’economia
tedesca, con il blocco navale che la Home Fleet aveva attuato.
Sulle indecisioni degli anglo-francesi, pesava certamente
il ricordo degli spaventosi massacri di venticinque anni prima; essi non
volevano ripetere l’esperienza della guerra di trincea, e, aspettando a
piè fermo, al riparo delle casematte della linea Maginot o dietro
la linea dei forti belgi, l’attacco tedesco, diedero ad Hitler un vantaggio
decisivo.
Quando l’armata tedesca fu pronta e le condizioni
meteo furono considerate soddisfacenti, il 10 maggio del 1940, un’imponente
massa di aerei e di mezzi corazzati travolse tutto davanti a sé,
dando un’ennesima, terribile, dimostrazione dell’efficacia della tattica
della guerra lampo.
In un mese soltanto, gli eserciti di due tra le
più temute potenze del mondo furono sbaragliati: mentre i Francesi
oliavano i loro poderosi cannoni, nelle torrette corazzate della linea
Maginot, i Tedeschi lanciavano paracadutisti sui forti belgi, superavano
i canali olandesi con i gommoni; soprattutto, facevano passare le loro
Panzerdivisionen attraverso le Ardenne, che i Francesi avevano,
col loro solito acume, definito "inattraversabili" da parte di
grosse formazioni corazzate.
Questa volta, il "piano Schlieffen" aveva
funzionato: le branche della tenaglia si erano chiuse sul nemico, grazie
alla maggiore velocità delle truppe corazzate di Hitler rispetto
alla fanteria del 1914; naturalmente, facendo onore alla sua fama di gentiluomo,
il Fuehrer si era guardato bene dal dichiarare ufficialmente guerra a Belgio
ed Olanda: i tempi della cavalleria erano definitivamente tramontati, e
si entrava in quelli della guerra totale.
A questo punto, Mussolini, che aveva scorte per
soli tre mesi di guerra ed aveva a lungo tergiversato con il collega tedesco
circa il rispetto del patto d’acciaio, ritenne che valesse la pena di correre
il rischio, dato l’imminente collasso del sistema difensivo francese; così,
il 10 giugno del 1940, dal balcone di palazzo Venezia, il Duce annunciò
all’Italia che eravamo in stato di guerra con la Francia e la Gran Bretagna.
Al canto di "E la Francia l’è una gran
troia: Nizza e Savoia ci renderà…", il 21 giugno del 1940,
le truppe italiane ebbero il loro battesimo del fuoco sul fronte occidentale;
l’armistizio fu chiesto dai Francesi tre giorni più tardi (si erano
già arresi ai Tedeschi il giorno 22).
Le nostre truppe, mal condotte e poco attrezzate,
erano avanzate di pochissimi chilometri in territorio francese; e questo
primo, modesto scacco, subito da una nazione ormai alla canna del gas,
avrebbe dovuto fare riflettere i capi dell’esercito sulla improponibilità
di una nostra partecipazione da protagonisti ad un conflitto in cui l’apparato
produttivo aveva un’importanza decisiva.
Viceversa, l’Italia si gettò a capofitto
in un’impresa che avrebbe, come profetizzava il ministro degli esteri Ciano,
compromesso il Paese ed il Regime.
La Francia, nel frattempo, si era arresa, come abbiamo
detto, ai Tedeschi: il doloroso compito di trattare la resa fu affidato
ad un vecchio soldato, l’eroe di Verdun, colui che aveva firmato il celeberrimo
bollettino di guerra intitolato On les aura, che era una sorta di
simbolo del valore francese: il maresciallo Pètain, che fu nominato
plenipotenziario dal Parlamento francese(17 giugno 1940).
Il 22 giugno, nello stesso villaggio di Rethondes
in cui era stata firmata la resa della Germania nel 1918 e sullo stesso
vagone, di proprietà del M.llo Foch, su cui gli ufficiali del Kaiser
avevano chiesto l’armistizio, i Francesi si arresero alla Germania di Hitler.
Il Fuehrer era al settimo cielo: la pugnalata alle
spalle era stata vendicata; i fantasmi di Verdun, della Somme, di Paschendaele,
determinavano ancora i destini d’Europa.
La Francia fu divisa in due parti: Nord e Atlantico
occupati militarmente dai Tedeschi; e Sud, con capitale Vichy, governati
da un regime collaborazionista, presieduto da Pétain con primo ministro
Laval.
Esisteva, per la verità, una terza Francia,
ancorchè solo virtuale: la "Francia libera", proclamata
dal generale De Gaulle dal suo rifugio londinese e composta dai reduci
francesi che erano riusciti a raggiungere la Gran Bretagna: dai microfoni
della BBC, De Gaulle esortava i Francesi a resistere contro l’occupazione
tedesca, creando quella che sarebbe diventata la resistenza francese, il
Maquis.
Rimane da esaminare un ultimo capitolo della campagna
occidentale del 1940, quello, forse, più enigmatico: Dunkerque.
Verso la fine di maggio, l’esercito britannico, senza più armi
pesanti, senza carri e senza copertura aerea, si trovava circondato nella
sacca di Dunkerque: sarebbe bastato poco, per le armate tedesche, per schiacciare
tutto quello che rimaneva all’Inghilterra in termini di soldati.
Invece, inspiegabilmente, le truppe del Terzo Reich
ebbero l’ordine di fermarsi ed aspettare.
Le ragioni di questo errore tattico, che avrebbe
avuto conseguenze alla lunga decisive sull’esito della guerra, possono
essere diverse.
Forse, Hitler temeva (anche se è poco probabile)
qualche trucco degli Inglesi; o, forse, pensava che, mostrando una specie
di clemenza verso i Britannici, questi avrebbero accettato di buon grado
una resa a condizione, in cui Germania e Regno Unito si sarebbero spartiti
il pianeta: colonie all’Inghilterra e Europa nell’orbita nazista.
Oppure, Hitler aveva già in mente l’attacco
al vero nemico di sempre, gli Slavi, e, pensando al Lebensraum ,
vedeva una pace rapida con l’Inghilterra come la scorciatoia per l’invasione
dell’Urss.
Se pensiamo alle letture di cui Hitler aveva nutrito
il proprio fanatismo (Chamberlain, Gobineau) e al suo rispetto, nato nelle
trincee della prima guerra mondiale, per i soldati britannici, potremmo
azzardare che Hitler, nella sua analisi farneticante della realtà,
ritenesse gli Inglesi come sostanzialmente affini, per razza e carattere,
ai Tedeschi; egli, quindi, sarebbe stato incline a pensare possibile un’alleanza
"ariana", contro il comune nemico slavo, che il gesto di buona
volontà di Dunkerque avrebbe favorito.
Sono solo ipotesi, naturalmente; la verità
è che gli Inglesi ebbero il tempo di inviare a Dunkerque tutti i
battelli disponibili (operazione Dynamo), riportando a casa, tra il 27
maggio ed il 4 giugno, 350.000 uomini, tra cui 100.000 Francesi, mentre
i Tedeschi, tardivamente, davano l’attacco alla sacca e la bombardavano
dal cielo.
Forse, dire che Hitler perse la guerra a Dunkerque
è un eccesso: in realtà, almeno fino al 1942, le cose continuarono
ad andare bene, e a volte benissimo, per l’Asse; tuttavia, dalle spiagge
di Dunkerque, oltre che l’esercito inglese, i Britannici portarono a casa
qualcosa di più importante e di invisibile: la volontà di
resistere.
< DAL CROLLO DI WALL
STREET AL TRATTATO DI MONACO *** LA II GUERRA
MONDIALE II PARTE >
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