DAL CROLLO DI WALL STREET AL
TRATTATO DI MONACO
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N. 51, OTTOBRE 2000, completo di bibliografia tradizionale e di
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DAL CROLLO DI WALL STREET AL TRATTATO DI MONACO
LA CRISI DEL '29
Il 1925 segnò un momento estremamente positivo
per l’economia del vecchio continente: la Gran Bretagna aveva ritrovato
la convertibilità in oro della sterlina, la Germania, grazie al
piano Dawes, che le forniva enormi prestiti, teneva fede alle scadenze
delle rate del proprio debito di guerra e sviluppava strepitosamente la
propria rinascita economica ed industriale; proprio in quell’anno la produzione
complessiva dell’Europa ritornò ai livelli di prima della Grande
Guerra: sembrava, insomma, che il mondo si avviasse ad un periodo di benessere,
sviluppo e prosperità.
Tutto sembrava contribuire a creare nella gente
un ottimismo ed un’aspettativa verso un’età dell’oro che la società
industriale e capitalista pareva garantire.
Anche in Europa cominciarono ad affermarsi l’organizzazione
su vasta scala del lavoro e la derivante economia di scala, che presero
il nome di “fordismo” o “taylorismo”, d’importazione americana; e fu soprattutto
la Germania a far tesoro di questa dottrina, tornando ad essere, alla fine
degli anni Venti, la maggiore potenza industriale europea; il che, come
vedremo, la rese più vulnerabile di paesi ancora ad ampia vocazione
agricola, come, ad esempio, l’Italia, alla crisi del ’29.
In realtà, quell’America cui tutti guardavano
con ammirazione e che tutti cercavano di imitare era un colosso dai piedi
d’argilla, poiché la regola per mantenere il benessere economico
era che questo non poteva che aumentare: per continuare ad esistere doveva
espandersi in continuazione, secondo lo schema tipico della società
consumistica, basata sul circolo vizioso produrre-consumare-produrre di
più-consumare di più; con la continua necessità di
creare nuovi bisogni ed aspettative nel mercato.
In Italia, nel frattempo, il Regime puntava sulla
riduzione delle importazioni, seguendo tre vie principali: difesa ad oltranza
del cambio lira-sterlina alla cosiddetta “quota novanta”, che, però,
non corrispondendo al valore reale della lira, in realtà la penalizzava;
autosufficienza cerealicola (la cosiddetta “battaglia del grano” lanciata
da Mussolini nel ’25), e aumento dei dazi protezionistici a difesa dei
prodotti nazionali, altrimenti scarsamente economici e competitivi rispetto
a quelli dei paesi tecnologicamente più avanzati.
Proprio nel contesto della “battaglia del grano”,
il Fascismo incentivò l’attività contadina, esaltando la
figura del cittadino-agricoltore di matrice romana, ed operò importantissimi
lavori di bonifica, che interessarono più di 100.000 ettari di territorio
prima incolto, come avvenne per le paludi dell’Agro Pontino, distribuendole
a famiglie di contadini, in modo che esse non lasciassero l’agricoltura
per inurbarsi.
Il punto massimo di questa (un po’ abborracciata)
politica economica sarebbe stato rappresentato dal perseguimento dell’Autarchia,
ossia dell’autosufficienza italiana, che le “inique sanzioni” contro l’Italia
avrebbero incentivato.
Giovedì 24 ottobre 1929, il mondo si svegliò
dalla favola bella che lo aveva illuso: l’idea che la ricchezza potesse
crescere all’infinito evaporò all’apertura della borsa di Wall Street,
quel giovedì d’autunno, che sarebbe passato alla storia come il
“giovedì nero”.
Anche perché non si trattava di ricchezza
vera, ma virtuale.
Nei cinque anni che precedettero il disastro il
valore dei titoli di borsa americani si era quadruplicato, infondendo negli
speculatori un’incrollabile certezza nella solidità del sistema:
questo innescò, coll’andare del tempo, una sconsiderata corsa al
rialzo, dovuta alle speculazioni sfrenate, portando i titoli ad una sopravvalutazione
critica; quando in qualcuno la fiducia venne meno, il mercato si sgonfiò
come un palloncino.
Mi spiego: la differenza tra il valore reale di
un’azienda (immobili, capitali, macchinari, fatturato eccetera) ed il suo
valore azionario non può superare una certa forchetta; perché
se la disparità è troppo forte, prima o poi si scapicolla
giù.
Oggi esistono dei meccanismi di ammortizzamento
degli eccessivi rialzi e ribassi: nel 1929 no; perciò, la prima
crepa che incrinò il monumento di fiducia cieca nel mercato che
era Wall Street, fece crollare tutta l’impalcatura.
Naturalmente, nel panico delle svendite forsennate,
le azioni scesero di molto sotto quel valore reale delle imprese che, come
abbiamo visto, è l’unico dato non virtuale in tutta la faccenda,
mettendo in crisi l’intero sistema capitalistico.
Già martedì 29 ottobre (il “martedì
nero”), la borsa nuovayorkese aveva perso tutti i guadagni dell’intero
anno.
Ma la crisi non doveva interessare solo la borsa:
la domanda di beni di consumo scemò rapidamente, le vendite calarono,
la produzione risultò esorbitante rispetto ai consumi, e l’industria
si inceppò; il capitalismo prima maniera mostrava tutti i suoi limiti:
iniziava la Grande Depressione.
Poco dopo, entrò in crisi l’intero mercato
agricolo, crisi che, con l’impossibilità da parte degli agricoltori,
grandi clienti delle banche di prestito, di pagare i debiti, causò
il crollo del sistema creditizio, col fallimento di molte banche.
Nel 1933 le industrie Usa producevano la metà
di quanto non facessero nel 1928, con, per conseguenza, il 25% della forza
lavoro a spasso: 13 milioni di disoccupati.
Naturalmente, questa ondata di sfiducia, se non
di vero terrore, si trasmise all’Europa, da dove gli investitori statunitensi
si affrettarono a ritirare i propri capitali.
Chi ebbe la peggio, come abbiamo detto, fu la Germania,
che si trovò con la produzione industriale dimezzata e 6 milioni
di senza lavoro; il presidente americano Hoover (cui , in patria, venivano
attribuite pesanti responsabilità per la crisi, tanto da battezzare
le baraccopoli dei disoccupati “Hoovervilles”) propose, nella conferenza
di Losanna (1932) di sopprimere i debiti di guerra tedeschi, ma non servì
a nulla.
Francia ed Inghilterra subirono la crisi, ma in
termini meno drammatici, così come (per le ragioni già dette)
l’Italia.
In conclusione di questo paragrafo sulla crisi del’29,
possiamo dire che, di fatto, fu proprio la drammatica situazione economica
tedesca all’indomani del crollo di Wall Street ad abbattere la traballante
Repubblica di Weimar, a determinare l’ascesa al cancellierato di Hitler
e, soprattutto, a soffiare sulle braci dell’antisemitismo germanico, che,
di lì a qualche anno, sarebbe tragicamente esploso.
IL NEW DEAL
In un certo senso, possiamo dire che il padre di
tutte le versioni più o meno caserecce di Welfare State, ossia di
stato sociale, sia stato F.D. Roosevelt, presidente degli Usa dal 1932
al 1945.
In effetti, il suo New Deal, il nuovo corso che
impose all’economia, fu il primo tentativo di conciliare il capitalismo
con l’attenzione alle classi più deboli economicamente, riformando
profondamente l’economia americana, che, fino ad allora, era improntata
al puro e semplice liberismo d’iniziativa privata.
In pratica, Roosevelt si lanciò in una politica
economica basata su grossi investimenti pubblici e su di una partecipazione
(e, quindi, un controllo) da parte dello Stato nell’attività economica.
Questa idea avrebbe trovato forma compiuta nell’opera
“Teoria generale dell’impiego, dell’interesse e della moneta”, che, nel
1936, fu pubblicata dall’economista inglese J.M. Keynes, che indicò
proprio nell’intervento dello Stato a sostegno della domanda (anche a costo
di peggiorare il bilancio)la soluzione del problema.
Per gli economisti del secondo dopoguerra ( e per
i politici semianalfabeti dei giorni nostri), Keynes sarebbe stato quello
che fu Marx per i socialisti ottocenteschi: un mito.
Tornando al New Deal, dall’istituzione della CWA
(Civil Works Administation), derivò l’iniziativa di grandi opere
pubbliche, che, oltre a dotare di infrastrutture il territorio, dessero
lavoro a grandi masse di disoccupati, come la bonifica dell’intera valle
del fiume Tennessee.
Roosevelt diede origine ad una serie di agenzie
governative, che garantissero il controllo dello Stato nelle attività,
ma anche il rispetto delle regole che tutelavano i lavoratori (Social Security)
attraverso un sistema pensionistico e di sussidi.
Certo, il nuovo corso aiutò l’America ad
uscire dalla crisi, tuttavia, senza guerre, gli Usa, allora come oggi,
non galleggiano: diciamo che Roosevelt diede ai lavoratori americani riforme
importanti e a tutto il popolo americano un’iniezione di fiducia; tuttavia,
sarà solo la seconda guerra mondiale che raddrizzerà l’economia
statunitense, visto che i disoccupati americani, ancora nel 1939, erano
più di dieci milioni!
Quindi, se certamente il New Deal è stato
un momento importante nell’evoluzione della società capitalistica
americana, non è stato certamente quella panacea che economisti
improvvisati o storici altrettanto d’accatto vanno sbandierando.
E’ vero che la volontà conta parecchio, ma
non basta voler risolvere una crisi economica perché la crisi si
risolva davvero!
Oggi, e forse qualcuno se ne sarà accorto,
navighiamo più o meno nella stessa direzione cui tendeva l’America
nel 1929: la New Economy ha molti caratteri comuni con la Old Economy fordista,
come i soldi facili e la mitologia che ne consegue.
Stiamo attenti, perché di giovedì
e di martedì nei nostri calendari ce n’è ancora parecchi;
e non è detto che saranno tutti rosa!
LA VIA AUTARCHICA
Se le democrazie occidentali reagirono alla crisi
del ’29 in chiave Keynesiana, da parte delle dittature socialnazionali
l’intervento statale nel reggere il timone dell’economia fu ancora più
drastico.
La campagna elettorale che portò, nel 1932,
la NSDP ad essere il primo partito tedesco, vide tra i punti principali
del programma di governo di Hitler proprio la lotta alla disoccupazione;
il che portò ai nazisti i voti del Lumpenproletariat e, in generale,
delle classi lavoratrici.
Insomma, quando Hindenburg, il 30 gennaio 1933,
si decise ad affidare ad Hitler il cancellierato, a spingerlo a questa
azione così terribilmente rivoluzionaria furono, da una parte le
pressioni della classe operaia, ma, in assai maggior misura, quelle di
Papen e dei poteri forti dell’industria tedesca, come i Krupp, i Thyssen
e i Siemens; questo prova che l’idea nazionalsocialista di partecipazione
statale all’impresa aveva attecchito anche nei salotti buoni dell’imprenditoria.
Comunque sia, se dobbiamo indicare un comun denominatore
nell’atteggiamento dell’economia nazista e di quella fascista, dobbiamo
dire che entrambe miravano ad una generale autosufficienza dall’esterno:
all’autarchia.
L’autarchia appariva non solo il frutto di un poderoso
sforzo nazionale, ma, soprattutto, avrebbe permesso ai due regimi, ampiamente
boicottati dalla Società delle Nazioni, di affrancarsi dal ricatto
degli embarghi e di perseguire una politica interna ed estera del tutto
spregiudicate; senza contare che l’idea autarchica soffiava sul fuoco dell’orgoglio
nazionale.
In particolare, a partire da una certa data, che
potremmo collocare intorno alla metà degli anni ’30, le due economie
(naturalmente, quella tedesca in maniera più sensibile) si dedicarono
ad un imponente riarmo; il che significava grandi commesse statali e, quindi,
una dilatazione della spesa pubblica, esattamente come nel caso del New
Deal americano.
Solo che, anziché trattori, si producevano
panzer!
Un po’ sulla falsariga di quanto stava avvenendo
in U.R.S.S., con i piani quinquennali, in Germania fu varato un piano economico
quadriennale, che, tra il 1936 ed il 1939, cancellò dal vocabolario
tedesco la parola “disoccupati”, facendo aumentare la produzione del 110%.
Per gli operai, la presenza dello Stato nell’impresa
significò, da un lato, la perdita di ogni diritto rivendicativo
e sindacale e, dall’altra, la certezza del posto di lavoro e di un salario
costante.
In Italia, la partecipazione dello Stato all’attività
imprenditoriale durante la crisi dei primi anni Trenta si concretizzò,
soprattutto, nella creazione di due grandi enti: l’IMI (Istituto Mobiliare
Italiano, 1931) che era, in pratica, una banca d’investimento a favore
dell’industria, e l’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale, 1933),
che, dal ruolo iniziale di ente per salvare banche ed industrie in crisi,
divenne, nel 1937, un ente permanente di gestione; in pratica, cioè,
divenne proprietario dei propri assistiti.
Il risultato politico di questi diversi atteggiamenti
economici e, più in generale, degli effetti della crisi del ’29,
fu, in pratica, la cessazione di ogni collaborazione internazionale di
ampio respiro, con le varie economie chiuse in se stesse e protette da
dazi e gabelle, in un regime di isolazionismo e di sciovinismo.
DITTATURE E DEMOCRAZIE
A metà degli anni ’30, la carta d’Europa
si era andata delineando, con un blocco compatto di regimi autoritari di
stampo nazionalista e nazionalsociale e un blocco assai più incerto
e sfilacciato di democrazie di stampo liberale.
Come noteremo, ad una politica estera aggressiva
e velleitaria delle prime corrispose un atteggiamento incerto e tentennante
delle seconde, che avrebbe portato al trattato di Monaco e alla corsa verso
la guerra.
D’altra parte, mentre all’interno delle democrazie
era in corso un’aspra lotta politica, negli stati totalitari il consenso
raggiungeva l’apice.
Mussolini, ad esempio, che si era ingraziato i cattolici,
con la stipula dei Patti Lateranensi (11/2/1929), si atteggiava a risanatore
dell’economia e aveva conquistato, con la guerra d’Etiopia (1935-36), l’Impero:
godeva, perciò, negli anni immediatamente antecedenti lo scoppio
della seconda guerra mondiale, di un indiscusso e vastissimo consenso popolare,
che non era solo il prodotto della paura, ma, per buona parte, rispecchiava
i reali sentimenti degli Italiani.
Furono le dissennate prese di posizione a favore
del nazismo e dell’entrata in guerra che alienarono al Duce le simpatie
della gente; ma possiamo tranquillamente dire che, nel 1936, Mussolini
era ancora il beniamino del popolo italiano.
Normalmente, poi, si tende a considerare l’Europa
degli anni ’30 divisa in tre grandi blocchi: Italia, Germania e, in seguito,
Spagna, contrapposte a Francia ed Inghilterra, con una terza, vasta, zona
grigia di paesi che non erano né con Cesare né contro Cesare:
naturalmente, non era proprio così.
In Europa, proprio negli anni’30, si diffuse tutta
una serie di regimi dittatoriali, che, se non d’ispirazione direttamente
fascista, erano certamente di impronta conservatrice, spesso ultracattolica
e, naturalmente, ad economia corporativa, come quello austriaco di Dollfuss
(1934) o quello portoghese di Salazar (1934).
A questi modelli, si devono aggiungere le dittature
d’impianto più tradizionale, che si svilupparono come funghi nei
paesi economicamente più arretrati, come in Ungheria, Polonia, paesi
baltici, Yugoslavia, Albania, Grecia, Romania e Bulgaria: questi regimi
si basavano spesso su di una triade composta da potere politico, potere
militare e proprietari terrieri, ed erano concordemente animati da un feroce
anticomunismo; la qual cosa ha una qualche giustificazione, se consideriamo
chi avevano per vicino di casa i paesi che ho citato!
Oltre a questo, dobbiamo sottolineare che in quasi
tutti i paesi europei, compreso il Regno Unito, erano sorti partiti di
ispirazione fascista, come i Rexisti belgi, il PNS olandese, il BUF inglese
o il PPF francese, sebbene si trattasse di formazioni poco numerose ed
ininfluenti politicamente.
Non così, invece, il movimento croato degli
Ustascia di Ante Pavelic , la Guardia di Ferro di Codreanu, in Romania
o le Croci Frecciate ungheresi, che ebbero un ruolo primario nella vita
politica di quei paesi.
La reazione a questo diffondersi della dottrina
fascista non tardò a farsi vedere: nel 1935, l’U.R.S.S., per mezzo
della Terza Internazionale, lanciò la politica dei Fronti popolari,
che imponeva ai comunisti d’Europa di allearsi, in chiave antifascista,
con socialisti e liberali.
Nel 1936, il FP vinse le elezioni in Francia, e
divenne primo ministro il socialista Blum, che, però, boicottato
dai poteri forti, un anno dopo dovette dimettersi: nel 1938 si era tornati
ad un governo radicale, con le sinistre all’opposizione.
Anche in Spagna il FP si impose, nel 1936, ma la
guerra civile lo travolse.
Il tentativo di dividere le due principali dittature
di destra, creando un’alleanza Francia-Gran Bretagna-Italia, in chiave
antitedesca (il cosiddetto “fronte di Stresa” del 1935) sarebbe stato sconfessato,
di lì a poco, dall’intervento italiano in Etiopia.
Restava la Società delle Nazioni, ma, come
vedremo, contava quanto il due di coppe; come avrebbe dimostrato proprio
la guerra italo-etiopica.
GLI ANNI DEL TERRORE COMUNISTA
In U.R.S.S. , il 21 gennaio 1924, era morto Lenin:
certo, era responsabile di diversi milioni di morti, ma, in confronto al
suo successore, era stato solo un dilettante.
Egli aveva governato un paese lacerato da una guerra
civile e che ne era uscito stremato; perciò, Lenin aveva puntato
su di una rinascita economica che partisse dalle campagne, per ridare fiato
all’Unione Sovietica.
Inaugurò, così la sua NEP, la nuova
politica economica russa, macellando giudiziosamente chi vi si opponesse,
o anche solo chi fosse stato un proprietario terriero di un certo tipo.
Ma era, economicamente e politicamente, come ho
detto, un dilettante.
Il suo successore, il compagno Dzugasvili, georgiano
rozzo ed astuto, più noto col soprannome di Stalin, avrebbe mostrato
al mondo come si faceva a mettere in atto il comunismo reale!
Tanto per cominciare, con Stalin si ebbe la completa
identificazione tra Stato Sovietico e PCUS: il bene comune era noto solo
agli apparati della Nomenklatura, perciò, chiunque andasse contro
il partito era semplicemente un pazzo, perché non voleva il proprio
bene: era un potenziale suicida.
Stalin, infatti, aiutò qualche milione di
questi pazzi a suicidarsi, in una sagra del cupio dissolvi che rappresenta,
a tutt’oggi, il più sfrenato massacro di cui la storia tramandi
(si fa per dire) memoria.
I primi a fare i conti con la sete di sangue di
Stalin furono i kulaki, i contadini ricchi, che, a partire dal 1929, vennero
sterminati come sabotatori della rivoluzione.
Nella sua ascesa al potere assoluto ed incontrastato,
Stalin allontanò uno ad uno dal partito tutti i possibili oppositori,
o anche solo chi poteva dargli ombra: Trotckij, Bucharin (il continuatore
della NEP), Zino’ev e Kamenev, innanzi tutto.
Puntualmente, alla morte civile, fece seguito quella
fisica, e uno ad uno, i “vecchi bolscevichi” sparirono nelle grandi repressioni
degli anni Trenta, note al mondo come “Purghe”.
Quando fu ben sicuro della sua posizione, Stalin
cominciò a creare la nuova Unione Sovietica: un sistema totalitario
basato su di una onnipotente burocrazia, teso a ferrei obiettivi di crescita
industriale ( i cosiddetti “piani quinquennali”) e retto col terrore da
una casta di poliziotti politici coperti di privilegi e al di sopra della
legge, la NKVD, che fu protagonista dei terribili massacri e dei processi
farsa del 1934-38, che colpirono, dapprima, le personalità politiche,
poi i militari, i tecnici, e, infine, a casaccio, un po’ tutti quanti.
La causa occasionale che determinò l’inizio
del terrore staliniano, fu l’omicidio (1934) di uno dei capi sovietici,
Kirov: le modalità con cui gli spararono, nel suo ufficio, lasciano,
però, chiaramente intendere che, in realtà, c’era lo zampino
della NKVD.
Da quel momento, nessuno sfuggì al terrore
staliniano: bastava una parola, un cenno, e i figli denunciavano i padri,
le mogli i mariti.
Molti furono fucilati senz’ altro che un processo
sommario, altri subirono processi pubblici grotteschi, in cui, anche se
innocenti, veniva ordinato loro di confessare colpe del tutto inverosimili,
dicendo che dovevano farlo per il Partito.
E quelli, disciplinatamente, confessavano!
La maggioranza, milioni e milioni, sparì
nei gulag del grande Est, e se ne perse memoria.
Quando, nel 1953, Stalin morì, ci fu chi,
in Italia, scrisse che era morto il padre della libertà e della
democrazia.
Qualcuno di quelli che lo scrissero, siede oggi
nel nostro Parlamento, e si permette di giudicare la coscienza democratica
degli altri!
VERSO LA SECONDA GUERRA MONDIALE
Alla vigilia del trattato di Monaco, dell’ottobre
1938, l’atmosfera politica internazionale era tesa e preoccupata; un po’
tutti, però, pensavano che, dopo soli vent’anni dalla fine di un
conflitto spaventoso, il mondo non sarebbe stato così pazzo da gettarsi
in un’altra guerra mondiale.
Eppure, gli anni tra il 1935 ed il 1938 avevano
mostrato una evidentissima escalation dei conflitti locali, un riarmo massiccio
ed una progressiva aggressività nei rapporti internazionali: tutti
segnali che dovevano mettere le democrazie occidentali sull’avviso.
Hitler voleva la guerra, ed era determinato a chiedere
sempre di più alla comunità internazionale, finchè
non avrebbero dovuto dirgli di no.
Le prove generali del conflitto furono fatte in
Etiopia e in Spagna.
Già all’inizio degli anni ’30, in Italia
si era diffusa la teoria secondo cui la soluzione ai problemi di sovrappopolazione
e di scarsità di materie prime del Paese si doveva trovare in una
ulteriore spinta coloniale (veniva ripresa un’idea nata ai tempi della
guerra di Libia, in realtà).
L’incidente di frontiera di Ual-Ual (12/1934), tra
italiani ed etiopici, fu il pretesto che Mussolini cercava.
A nulla valse il tentativo britannico di mediazione:
il Duce, ormai, aveva deciso di “vendicare Adua”.
Si confezionò, dunque, per l’opinione pubblica,
una ridicola versione dei fatti, secondo cui gli Italiani sarebbero andati
in Etiopia a liberare gli Etiopi da se stessi, o, meglio dalla schiavitù
in cui li teneva il Negus Hailè Selassiè.
La guerra fu iniziata, senza regolare dichiarazione,
nell’ottobre del ’35, e si concluse nel maggio del ’36, dopo una lotta
dura e con un grande dispendio di mezzi: nasceva l’Africa Orientale Italiana
e Vittorio Emanuele diventava imperatore.
La Società delle Nazioni lanciò delle
sanzioni contro l’Italia, ma il loro risultato fu tanto meschino che, già
nel luglio del 1936, esse furono ritirate: la SdN aveva mostrato tutta
la sua impotenza ed inutilità.
Tuttavia, nonostante che Francia ed Inghilterra,
per non alienarsi le simpatie di Mussolini, avessero addolcito di molto
le sanzioni, il Duce si allontanò da loro, per avvicinarsi una prima
volta alla Germania nazista: si stava delineando l’idea dell’Asse Roma-Berlino,
che sarebbe nato nel novembre del 1936, nonché quella del nuovo
ordine mondiale, in cui le nazioni povere e anticomuniste (il patto anticomintern
è del 1937) si contrapponevano a quelle “demoplutocratiche”.
Nel frattempo, Hitler non era rimasto con le mani
in mano: nel 1935 aveva denunciato il trattato di Versailles e, un anno
dopo, aveva occupato militarmente la Renania, senza che la Francia osasse
reagire.
Ma il vero terreno di scontro tra fascismo ed antifascismo,
sarebbe stata la guerra civile spagnola.
In Spagna, la vittoria del FP del 1936 aveva portato
una serie di tentativi di riforma della società che erano odiosi
agli occhi dei cattolici e dei proprietari, e aveva visto una scontro sempre
più duro tra gli uomini del FP e quelli della Falange (formazione
filofascista, creata da Josè Antonio Primo de Rivera).
Le violenze da una parte e dall’altra si moltiplicarono,
fino all’assassinio del capo monarchico Calvo Sotelo, cui seguì
l’alzamiento dell’esercito contro la repubblica, con la guida del comandante
delle truppe in Marocco, Francisco Franco (17/7/1936).
Lo sbarco sulla penisola iberica delle truppe di
Franco diede il via alla guerra civile, che costò alla Spagna quasi
mezzo milione di morti, e vide episodi di mostruosa ferocia da entrambe
le parti.
La guerra si concluse il 28 marzo del 1939, con
l’ingresso vittorioso a Madrid di Franco: il Caudillo diventava dittatore
e lo sarebbe rimasto per molti anni ancora.
Di fatto, se non ufficialmente, parteciparono alla
guerra civile, dalla parte di Franco, Italia e Germania e, da quella dei
Repubblicani, l’Unione Sovietica, e le Brigate Internazionali, formate
da antifascisti (perloppiù comunisti, tout court) di tutto il mondo;
la guerra di Spagna divenne, perciò, la metafora della lotta tra
fascismo ed antifascismo, con i suoi miti ed i suoi eroismi, ma anche con
molte pagine oscure.
Intanto la Germania perseguiva la sua politica di
annessioni, seguendo il dettato di quanto Hitler aveva enunciato nel suo
libro-guida “mein Kampf”, pubblicato nel 1924, all’indomani del fallito
Putsch di Monaco.
Hitler sosteneva che tutti i popoli tedeschi
dovessero riunirsi in un’unica comunità (Grossdeutschland), identificata
da comuni caratteri razziali (Volksgenossen), in barba alle frontiere di
Versailles.
La Germania, inoltre, necessitava di maggior spazio
vitale (Lebensraum) che doveva acquisire a spese del nemico tradizionale,
ossia gli Slavi.
Per questo, dal 1938 in poi, Hitler perseguì
una politica di annessioni (Anschluss) che cominciarono con l’Austria (12
marzo 1938).
La tecnica da parte della Germania era sempre la
stessa: sostenere la crescita di partiti nazisti filo annessionisti nei
paesi da occupare, simulare disordini contro i nazisti ed intervenire in
loro difesa: in Austria fu il neo cancelliere nazista Seyss-Inquart ad
invitare Hitler all’Anschluss, dopo aver preso il potere con la violenza
e l’intimidazione.
Tuttavia, l’Austria non era troppo scontenta di
questa annessione: il 99% degli Austriaci votò sì al plebiscito
che la sanciva.
Francia ed Inghilterra tendevano ad accontentare
il Fuhrer, in nome dell’appeasement, cioè del tentativo di mantenere
la pace ad ogni costo, lanciato dall’inglese Chamberlain; questa tecnica,
però, avrebbe dato pessimi frutti: Hitler era incontentabile.
Infatti, di lì a poco, rivendicò la
tedeschità dei Sudeti cecoslovacchi, che erano una minoranza (20%della
popolazione) di lingua tedesca.
Per scongiurare l’intervento militare di Hitler,
a Monaco, il 29 e 30 settembre del ’38, si tenne una conferenza a quattro
(Mussolini, Chamberlain, il francese Daladier ed Hitler) in cui si decise
l’annessione alla Germania del territorio sudeto.
Il ministro cecoslovacco Benes, che era stato lasciato
fuori dalla sala del congresso, fu messo di fronte al fatto compiuto e
commentò amaramente, dicendo che, se con questo sacrificio del suo
paese si salvava la pace, lo avrebbe accettato, ma, in caso contrario,
che Dio avesse pietà di loro.
Il 15 marzo del 1939 le truppe tedesche avrebbero
occupato Praga e sarebbe sparita la Cecoslovacchia, divenuta un protettorato
tedesco.
Nemmeno sei mesi dopo, Hitler avrebbe attaccato
la Polonia.
< IL PRIMO DOPOGUERRA ***
LA II GUERRA MONDIALE Ia PARTE - LA MAREA
1939-1940 >
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