Riportiamo la parte principale dell'inserto uscito su AREA
N. 47, MAGGIO 2000, completo di bibliografia tradizionale e di "sitografia".
Gli inserti, a cura dello storico Marco Cimmino, fanno parte di
una serie pubblicata mensilmente su AREA, per fornire uno strumento di
aggiornamento sul '900 per le scuole dell'obbligo. L'inserto
originale, pubblicato su AREA, è completo di ricca iconografia,
apparato didattico compresi test di autovalutazione con soluzioni, suggerimenti
di temi da svolgere, etc.
AREA si trova mensilmente in edicola al costo di lire 7000.
I numeri arretrati saranno inviati al costo di lire 10000, comprensivo
di spese postali, previa richiesta da inoltrarsi alla Direzione-Redazione
di AREA, Via Simone de Saint Bon, 61, 00195 Roma. La richiesta può
essere fatta anche via fax (06-3724644) o per email: areasede@tin.it
INTRODUZIONE
Chi avesse letto i principali quotidiani europei,
la mattina del 12 novembre 1918, avrebbe trovato, a titoli di scatola,
la notizia che, da più di quattro anni, miliardi di persone aspettavano:
la guerra era finita, definitivamente (si sognava, allora), su tutti i
fronti.
Il lettore, però, sia che fosse un festante
Francese, un Inglese o un Americano, o un esausto Italiano, sia che fosse
un Tedesco o un Austroungherese, con le lacrime agli occhi ed un futuro
minaccioso davanti, non avrebbe trovato, nel clamore delle prime pagine,
urlate agli angoli delle strade, la notizia vera, quella importante: il
necrologio dell'Europa.
Nonostante si sia tentato, con quel procedimento
storico ormai invalso da parte di una certa tendenza storiografica, di
cancellare o addomesticare un periodo non facilmente collocabile all'interno
dei teoremi di comodo, nelle trincee di Paschaendaele e sulle cenge delle
Dolomiti si era consumata un'Europa che esisteva, con scarsissimi mutamenti,
da secoli.
Altro che secolo breve: il Novecento è stato
un secolo lunghissimo, aperto dalla veglia funebre davanti al cataletto
dell'Europa dei re e degli imperatori e concluso dal più che cinquantennale
balipedio di un'Europa che vive soprattutto sulle banconote da cento Euro!
Eppure, senza il feroce tirocinio della Grande Guerra,
non ci sarebbe neppure stato il “Novecento”: probabilmente, non sarebbero
esistiti gli ipernazionalismi, nati dalle insoddisfazioni di Versailles,
come non ci sarebbero state le rivoluzioni, di cui quella guerra fu la
levatrice, e, soprattutto, non ci sarebbe stato il ricatto economico statunitense,
che nacque proprio dagli enormi vantaggi americani, dovuti ai debiti di
guerra: altro che splendido isolamento!
Insomma, il Novecento sarebbe stato un secolo di
quieta transizione, con le sue quiete guerricciole e il suo quieto malessere
generale, con alleanze traballanti ed incidenti internazionali mai abbastanza
gravi da non essere rimediati: al posto di alcuni atroci genocidi, probabilmente,
ne avremmo avuti altri; ma meno eclatanti e meno raccontati, del tipo di
quello attualmente in corso in Algeria.
Tutto è possibile, ma a noi piace pensare
che, in fondo, l'Europa migliore non sia l'Europa di Romano Prodi, ma quella
che è rimasta a difendere Verdun per l'eternità.
LA GRANDE GUERRA
Parte prima: da Serajevo al patto di Londra
I primi colpi della Grande Guerra furono sparati
a Serajevo, il 28 giugno del 1914.
Li sparò un giovanotto serbo, associato al
gruppo nazionalista della Narodna Odbrana: Gavrilo Princip.
Bersaglio di quei colpi di pistola furono l'erede
al trono absburgico, Francesco Ferdinando, e sua moglie, Sofia Chotek,
che morirono entrambi.
I Serbi vedevano nell'arciduca l'incarnazione dell'odiata
dottrina trialista, ossia l'idea di un'autonomia croata all'interno dell'impero,
in chiave antiserba ed antislava; inoltre, Francesco Ferdinando era legato
a filo doppio con il bellicoso alto comando di Baden, dominato dal generale
Conrad von Hoetzendorf e da un'ammirazione sconfinata per il militarismo
prussiano; tanto che, si mormora che l'anziano imperatore, Francesco Giuseppe,
ostile all'idea di un conflitto, alla notizia dell'eccidio, abbia esclamato:
“Poveri ragazzi; ma, in fondo, per la pace è meglio così!”.
Tuttavia, la situazione precipitò, in un
balletto di ambasciatori che si concluse col celebre ultimatum alla Serbia,
e con la dichiarazione di guerra, un mese esatto dopo l'attentato: una
versione piuttosto accreditata dei fatti è quella che indica nell'imperatore
tedesco, Guglielmo II, il motore della crisi definitiva, culminata con
la dichiarazione dei pieni poteri in bianco, che sanciva un'alleanza strettissima
tra i due imperi centrali.
Tant'è che Guglielmo II, dopo la mobilitazione
generale dell'esercito zarista, inviò già il 31 luglio un
ultimatum alla Russia e alla Francia, cui fecero seguito, a stretto giro
diplomatico, le dichiarazioni di guerra, rispettivamente l'1 ed il 3 di
agosto.
Così, scattarono i meccanismi delle alleanze:
l'Italia si dichiarò neutrale, come il Belgio (che ricevette ugualmente
un ultimatum dai tedeschi il 2 agosto e venne invaso due giorni dopo);
la Turchia si alleò segretamente con gli Imperi centrali e proclamò
la Jihad contro l'Intesa, il 31 ottobre; l'Inghilterra scese in campo contro
la Germania il 4 agosto e, dopo che l'A.U. dichiarò guerra alla
Russia (6 agosto), non esitò a dichiararle guerra, insieme alla
Francia (12 agosto).
I giochi erano fatti: ora toccava alle armi e non
più agli ambasciatori far sentire la voce dei vari stati belleigeranti.
Il creatore del piano strategico germanico in chiave
anti francese era stato, alla fine del secolo, un anziano generale, che
stava morendo proprio in quei giorni: Von Schlieffen.
Questo piano prevedeva l'invasione del nord- est
francese, con per obiettivo l'isolamento di Parigi, passando attraverso
il Belgio; il piano era brillante, ma c'era bisogno di due cose perché
funzionasse: un'azione a tenaglia in cui il lato destro fosse fortissimo,
per compiere l'aggiramento e tagliare in due lo schieramento anglo-francese,
ed una grande velocità di esecuzione.
Solo che, nel 1914, pur spostando velocemente le
truppe alle frontiere, grazie alla loro eccellente rete ferroviaria, i
tedeschi non disponevano di mezzi di trasporto celeri durante l'attacco;
le truppe ed i pesanti carriaggi d'artiglieria procedevano molto lentamente,
una volta effettuato lo sfondamento: furono i carri armati che permisero
ad Hitler di perfezionare quello che Schlieffen aveva progettato, cioè
la Blitzkrieg!
Per questo, i franco-britannici ebbero il tempo
di riorganizzarsi, dopo il primo shock, e di arrestare le armate tedesche
, contrattaccandole, fino a giungere su quelle posizioni che resteranno
in gran parte invariate per tutto il conflitto.
In effetti, nella prima decade di settembre 1914,
avvenne quello che fu, poi, definito da molti “il miracolo della Marna”,
quando le, apparentemente inarrestabili truppe germaniche, furono fermate
sulla via di Parigi da una robusta battaglia d'arresto sul fiume sacro
ai Francesi; il miracolo, però, è spiegabilissimo in termini
militari: oltre a quanto già scritto, è certo che i Tedeschi,
ad un certo punto, temettero di indebolire troppo il fianco sinistro a
favore del destro, e non diedero quella spinta vigorosa da nord che Schlieffen
aveva raccomandato per il buon esito del suo piano.
La volontà granitica di resistere e di non
ripetere un'altra Sedan da parte dei Francesi e il sacrificio terribile
del vecchio esercito professionale inglese (che ne uscì distrutto,
tanto che anche l'Inghilterra, in seguito a ciò, adottò la
leva di massa), che si dissanguò, insieme ai belgi e ad aliquote
francesi, per un mese nelle Fiandre (battaglie dell'Yser e di Ypres), allo
scopo di contendere ai germanici lo sbocco al Pas de Calais, che avrebbe
segnato il culmine dell'aggiramento (18 ottobre-15 novembre) , fecero il
resto.
Nasceva un nuovo tipo di guerra, la guerra di posizione,
basata su difese campali articolate e profonde, con fasce di filo spinato
larghe centinaia di metri, un'enorme quantità di pezzi d'artiglieria,
e un sostanziale prevalere della difesa sull'attacco, grazie alle nuove
armi a tiro rapido, le mitragliatrici, che, con l'artiglieria pesante,
saranno l'arma simbolo della Grande Guerra.
Il passo successivo sarà, come vedremo, la
guerra d'attrito, in cui le battaglie serviranno, non a conquistare un
successo definitivo, ma a consumare ferocemente le risorse materiali ed
umane dei contendenti, per ottenere il dissanguamento dell'avversario.
Sul fronte orientale, invece, i grandi spazi e le
caratteristiche degli eserciti contrapposti permisero vasti movimenti di
truppe.
Inaspettatamente, i russi, comandati da Samsonov
e Rennenkampf, attaccarono con successo la Prussia orientale, costringendo
al ripiegamento i tedeschi e creando sconcerto, se non panico, a Berlino;
poi, il provvidenziale intervento di Ludendorff, del suo vice Von Hindenburg,
e, soprattutto, di un valente generale che avrebbe fatto carriera, Von
Below, che inconteremo di nuovo come comandante generale a Caporetto, permisero
di capovolgere la situazione, passando l'iniziativa ai tedeschi, che l'avrebbero
poi sempre mantenuta.
Le armate germaniche inflissero una sconfitta spaventosa
alle truppe zariste, nella battaglia dei laghi Masuri (agosto-settembre
1914), che i tedeschi ricordano anche come battaglia di Tannenberg, per
associarla alla battaglia combattuta in quei luoghi nel XV secolo dai cavalieri
teutonici: ad un certo punto, era tale la mattanza delle truppe russe,
in fuga lungo le sottili lingue di terra tra una palude e l'altra, che
molti artiglieri tedeschi sospesero il fuoco.
Intanto, gli Austriaci faticavano, alle prese con
il combattivo esercito serbo e con la minaccia russa in Galizia (i russi,
dopo la battaglia di Grodek-Ravaruska, avevano respinto gli austriaci oltre
il San e minacciavano Cracovia), tanto che, ad un certo punto, i tedeschi
dovettero distogliere truppe dal settore settentrionale del fronte per
appoggiare l'alleato in difficoltà, intorno alla fortezza di Przemysl,
persa il 22 marzo del '15 e poi ripresa dopo la battaglia di Gorlice, il
2 giugno.
Alla vigilia dell'entrata in guerra dell'Italia,
nulla si era deciso, ad Ovest come ad Est, ma erano ugualmente già
cadute centinaia di migliaia di uomini: gli italiani mostrarono di non
saper fare tesoro dell'esperienza già maturata nel primo anno di
guerra, e questo come vedremo, avrebbe causato loro problemi a non
finire.
I Fronti
Per comprendere il meccanismo dei vari fronti, è
utile immaginarli come delle porte girevoli, nelle quali, data l'estensione
dei territori, alla spinta in un settore corrispondeva, quasi sempre, un
atteggiamento difensivo nell'altro: fu così sul fronte occidentale,
dove a nord era maggiore la pressione tedesca, mentre, verso sud, in Alsazia,
i Francesi avevano un'impostazione decisamente offensivista; lo stesso
dicasi per il fronte orientale, coi Russi aggressivi in Galizia e pesantemente
sconfitti in Masuria e sul Baltico; non si sottrasse alla regola
neppure il fronte meridionale, cioè quello italiano, con una forte
spinta offensiva austroungarica nel settore trentino, cui corrisposero
le undici battaglie dell'Isonzo, intorno a Gorizia e a Trieste, in cui
gli Italiani furono perennemente all'attacco.
Naturalmente, stiamo parlando di grandi tendenze:
è chiaro che, all'interno del sistema difesa-attacco, sussistevano
operazioni di carattere tattico, e anche di notevole importanza, che smentivano
la tendenza strategica generale; tuttavia, è opportuno tenere presente
questo schema, se si vuole avere un'idea abbastanza attendibile dei meccanismi
che sovrintendevano all'atteggiamento dei vari eserciti.
A questo si aggiunga che, da un certo momento in
poi, le offensive dell'Intesa vennero pianificate da un'apposita conferenza
interalleata, anche in funzione dell'alleggerimento di settori posti sotto
pressione: così, ad esempio, se gli Italiani erano alle strette
in Trentino, i Russi scatenavano un'offensiva in Galizia che distogliesse
truppe austriache dal fronte meridionale, permettendo agli alleati di riorganizzarsi.
Il fronte italiano, di cui ci occuperemo nel dettaglio
nel secondo inserto dedicato alla Grande Guerra, aveva caratteristiche
del tutto particolari; esso si trovava, per buona parte, in territori impervi,
con quote spessissimo superiori ai duemila metri, e con linee di rifornimento
problematiche.
L'unico settore paragonabile a quello italiano,
fu quello dei Carpazi, in cui le truppe austroungariche pagarono un pesante
tributo di sangue, del quale resta memoria, per esempio, nella celebre
canzone composta dai trentini che combattevano nell'esercito imperialregio
e intitolata “I monti Scarpazi”; per il resto, i fronti correvano in pianura
o, tutt'al più, su piccoli rilievi, onorati dell'appellativo di
Quote dalla toponomastica militare, come nel caso di Quota 304, a Verdun.
L'Italia
Dallo scoppio delle ostilità all'entrata
in guerra dell'Italia, come è noto, trascorsero dieci mesi, che
furono piuttosto turbolenti: erano appena finiti gli scioperi della Settimana
Rossa (giugno 1914) e l'Italia si era dichiarata neutrale, a differenza
di Mussolini, che, per questo, era stato espulso dal Psi ed aveva fondato
“Il popolo d'Italia”.
I diplomatici italiani, da subito, si erano messi
alla finestra, per cercare sul mercato del “do ut des” il miglior offerente:
dapprima, pareva che si dovesse trattare dell'Austria, in base a quell'articolo
della Triplice Alleanza che prevedeva compensi territoriali per l'Italia
in caso di un'espansione asburgica, non concordata, nei Balcani.
In seguito, si fece sempre più consistente,
nonostante le indefesse manovre dell'ambasciatore tedesco Von Bulow
presso il ministro di San Giuliano, l'ipotesi di un intervento a favore
dell'Intesa, dietro precise concessioni territoriali, che l'Italia specificò
in un memorandum consegnato al Foreign Office, nel marzo del '15.
Si giunse, infine, alla firma del patto segreto
di Londra (26 aprile), in cui l'Italia si impegnava ad entrare in guerra
entro un mese a fianco dell'Intesa, in cambio dell'annessione di Trentino-Alto
Adige, Trieste, Istria, Isole Dalmate, Valona e Dodecaneso, in caso di
conclusione vittoriosa del conflitto: le manifestazioni neutraliste ed
interventiste contarono certamente meno di questa allettante prospettiva;
una volta di più, la real politik aveva il sopravvento su qualsivoglia
utopia!
Prova ne sia il fatto che il blocco neutralista
era di gran lunga il più numeroso, anche se, forse, non il più
rumoroso, nello scenario politico del 1915; e, nonostante ciò, si
entrò in guerra.
Contò, senz'altro, di più l'asta dei
territori, che vide prevalere l'Intesa, dei discorsi (peraltro tardivi)
di D'Annunzio; quelli, semmai, servirono a circondare di un alone risorgimentale
le manovre di bottega dei nostri politici.
Probabilmente, il primo colpo di cannone fu sparato
dai forti italiani degli altopiani di Lavarone e Folgaria: da allora, le
armi non tacquero un solo giorno, per più di quaranta mesi, fino
al silenzio incredulo di quel pomeriggio del 4 novembre 1918.
In questo primo inserto, eviteremo di occuparci
nello specifico, se non per le sue relazioni con gli altri fronti, della
guerra sul fronte italiano, cui è dedicato, come abbiamo detto,
il secondo inserto; non ci si stupisca, pertanto, di non trovare menzione
degli avvenimenti che riguardino il nostro Paese in guerra nelle prossime
pagine: se ne parlerà diffusamente a suo tempo.
Da Ypres all'entrata in guerra degli Usa
Nell'andamento, tutto sommato, monotono del massacro
quotidiano sul fronte occidentale, si devono registrare dei picchi, in
corrispondenza dei vari reciproci tentativi di scardinare il dispositivo
delle difese avversarie; questi picchi rappresentano, oggi, delle cifre
impressionanti nel conteggio delle perdite, ma, molto di più, significano,
nei ricordi dei sopravvissuti, un orrore inimmaginabile.
Una storiografia basata sul calcolo statistico,
non potrà mai descrivere la tragedia infinita di Verdun o della
Somme: si potà dire dei milioni di proiettili d'artiglieria tuttora
non recuperati (e onorare gli eroici démineurs francesi, che ancora
oggi pagano un pesante prezzo alla bonifica dei campi di battaglia), delle
centinaia di migliaia di cadaveri mai trovati, dei colpi sparati, dei feriti
e dei mutilati; ma questo non servirà a comprendere l'incubo che
avevano negli occhi i reduci di queste battaglie terrificanti.
Nel 1915, l'orrore della guerra cominciò
ad assumere caratteri nuovi e peculiari: iniziò l'attacco sottomarino
tedesco ai trasporti nemici, nel tentativo di fiaccare la resistenza dell'avversario
e di controbilanciare la potenza britannica in termini di marina di superficie;
proprio in questo contesto avvenne, il 7 maggio, l'affondamento, al largo
dell'Irlanda, del transatlantico inglese “Lusitania”, con 124 americani
tra le vittime: questo, negli Stati Uniti, sarebbe stato uno degli argomenti
principali dei sostenitori dell'ingresso degli Usa in guerra al fianco
dell'Intesa.
A Ypres, in aprile, vi fu il primo massiccio attacco
con i gas da parte dei tedeschi, sia sulle linee inglesi che su quelle
francesi, a distanza di pochi giorni: di qui proviene il nome dato a quel
gas, la cosiddetta Iprite, che inaugurò la stagione dei grandi attacchi
con gas asfissianti e vescicanti, come il fosgene o il gas mostarda, che
anche sugli altri fronti semineranno morte e panico.
Nel frattempo, gli attacchi anglo-francesi in Artois
e nella Champagne si rivelarono sanguinosi fallimenti.
Più o meno nello stesso periodo, gli inglesi
avrebbero sperimentato la prima operazione di sbarco militare, mandando
i soldati dell'Anzac (Australian and New Zealand Army Corps) a farsi macellare
sulla penisoletta di Gallipoli, in Turchia.
Archiviata come uno dei più scalcinati attacchi
di tutta la guerra, l'impresa di Gallipoli aveva l'obiettivo di eliminare
il sistema di forti che impedivano l'accesso ai Dardanelli, in modo da
ottenere quel passaggio che le navi da guerra inglesi non erano riuscite
ad aprirsi coi loro cannoni, riportando, invece, seri danni.
Mal concepita e peggio condotta, la campagna che
si protrasse per ben otto mesi, dall'aprile del '15 al gennaio del '16,
vide tutta una serie di assalti sanguinosi ed improvvisati alla linea trincerata
turca, che portarono solo ad uno stallo, la cui unica soluzione fu, alla
fine, evacuare la penisola; se vi fosse stato, viceversa, un deciso
attacco di sorpresa, mentre le difese turche non si erano ancora potute
organizzare, probabilmente l'operazione sarebbe riuscita, senza le enormi
perdite subite dai valorosi Anzacs.
Questo, tuttavia, era solo l'inizio: il 1916 assistette
agli scontri, forse, più spaventosi dell'intero conflitto.
Tra il febbraio ed il dicembre del'16, a Verdun,
nella Woevre, francesi e tedeschi si contesero pochi chilometri quadrati,
al prezzo mostruoso di 700.000 morti.
Il generale Von Falkenhayn, aveva concepito un piano
feroce: si trattava di creare un saliente nel punto focale delle difese
nemiche, il vasto sistema di forti intorno a Verdun, sulle rive della Mosa,
in modo che i Francesi, non potendo ritirarsi, poiché questo avrebbe
messo in crisi l'intero fronte, dovessero gettare nella battaglia risorse
sempre maggiori, fino al dissanguamento del loro esercito; questa fu la
guerra d'attrito.
In effetti, l'esercito francese non si sarebbe mai
più ripreso dal tremendo salasso: i suoi effettivi non sarebbero
più tornati al numero di prima del febbraio del '16.
Nel pieno della battaglia, lungo la strada di rifornimento
tra Verdun e Bar le Duc (la Voie Sacrée), ogni giorno passava un'intera
divisione francese, che, il giorno dopo veniva sostituita, poiché
aveva cessato di esistere.
Il cimitero di Douaumont, con la sua tetra torre,
resta a testimonianza e monito di quel dramma gigantesco.
Alla fine, grazie soprattutto al valoroso comando
e alla volontà di resistere del generale Pétain (fu lui a
scrivere il celebre ordine del giorno “On les aura”), i Francesi conservarono
il possesso della cittadina; il prezzo pagato dai contendenti fu, tuttavia,
esorbitante.
Dopo la battaglia navale dello Jutland (31 maggio),
la situazione nel Mare del Nord e nel Baltico rimase sostanzialmente stazionaria:
le corazzate di Von Tirpitz non erano riuscite a sconfiggere la Home Fleet
inglese ed erano tornate nei loro porti per non uscirne, praticamente,
più; l'Inghilterra vinse la guerra dei blocchi e la Germania cominciò
a boccheggiare per la mancanza di rifornimenti via mare.
Tra il giugno ed il novembre del 1916, sul fiume
Somme, i tedeschi attaccarono e furono, poi, contrattaccati da inglesi
e francesi; il risultato fu insignificante in termini territoriali, mentre
i morti furono circa un milione, tra cui più di 400.000 britannici:
ormai la guerra aveva raggiunto tali livelli nelle perdite, che le nazioni
belligeranti non avrebbero potuto reggere a lungo a questi ritmi: verso
la fine del '16, fecero, infatti, capolino i primi tentativi di intavolare
trattative di pace da parte degli austrotedeschi
Intanto, sempre alla fine dell'anno, fecero la loro
comparsa nelle Fiandre i Mk1, i primi carri armati inglesi , che, però,
furono usati a spizzichi, e sempre a ruota delle fanterie: pochi ne intravvedevano
le immense potenzialità.
In realtà, quello era il mezzo per uscire
dallo stallo della guerra di trincea, a patto di gettarne nella mischia
masse numerose in un solo attacco, come avvenne a Cambrai (novembre '17),
su piccolissima scala; solo che nessuno se n'era ancora accorto.
VI INTERESSANO I TESTI DELLE CANZONI DELLA 1a GUERRA MONDIALE?
Mentre gli austriaci avanzavano in Trentino, in
seguito alla Strafexpedition (maggio 1916), il generale russo Brussilov
sfondava le linee austriache ad est e procedeva per centinaia di chilometri,
facendo prigionieri interi corpi d'armata.
Questa, che diede una mano ai nostri soldati che
difendevano la linea di massima resistenza, sull'Altopiano dei Sette Comuni,
fu l'ultima iniziativa vittoriosa dell'esercito zarista, che, di lì
a poco, sarebbe scomparso nel vortice della rivoluzione.
Con il 1916, comunque, si erano gettate le
premesse di quella stanchezza dell'”inutile strage”, come ebbe a definire
la guerra papa Benedetto XV, che si estese a tutti gli eserciti nel 1917;
i Turchi, nel frattempo, tanto per aggiungere stragi a stragi, massacravano
un milione di Armeni e gli Inglesi uccidevano i rivoltosi irlandesi dell'Easter
Revolution.
L'anno 1917 si aprì con l'entrata in guerra
degli Usa, dove aveva vinto il partito antitedesco; questo per l'Intesa
significò, almeno agli inizi, non tanto un peso in termini umani
sul piatto della bilancia, quanto in termini economici ed industriali:
molto più del milione e mezzo di soldati americani che sbarcarono
in Europa per combattere, contarono i loro mezzi, pressochè illimitati,
che spostarono l'ago della bilancia definitivamente dalla parte dell'Intesa.
Nonostante questo, la Germania non sembrò
mai tanto vicina a vincere la guerra come nel 1917: i suoi sommergibili
misero quasi in ginocchio la Gran Bretagna, affondando circa 900.000 tonnellate
di naviglio alleato, la Russia, dopo la fallimentare offensiva di luglio,
vide la vittoria bolscevica, la fine delle ostilità e l'umiliante
trattato di Brest-Litovsk (del dicembre 1917, ma sconfessato in seguito,
e ratificato, infine, nel marzo del '18, dopo l'invasione tedesca dell'Ucraina),
mentre la Francia reprimeva disperatamente continue sommosse e diserzioni
nel suo provatissimo esercito.
A questo si aggiunga che, grazie anche ai soldati
che si poterono sottrarre al fronte orientale, gli austrotedeschi avevano
dato una spallata al fronte italiano che sembrava definitiva: il 24 ottobre,
nell'alto Isonzo, le truppe degli imperi centrali avevano travolto la 2a
armata italiana, dilagando nella pianura, in quella che sarebbe passata
alla storia come battaglia di Caporetto; a quel punto, in pochi avrebbero
scommesso sulla resistenza italiana sul Piave.
Bisogna dire, in verità, che nemmeno in Austria
e Germania filava tutto liscio: oltre ai problemi dovuti alla grave penuria
di materie prime, che si faceva sentire sempre più, per gli effetti
del blocco continentale, si manifestavano dappertutto segnali di dissenso
aperto con la continuazione della guerra.
Mentre in Germania, questo dissenso aveva un carattere
maggiormente sociale, con scioperi (come del resto in Italia) ed ammutinamenti,
in Austria l'opposizione si colorava degli indipendentismi delle nazioni
che formavano il multietnico impero, dando il via a pressioni enormi per
ottenere autonomie e sovranità, specialmente in Cecoslovacchia e
nei paesi yugoslavi.
Col passare dei mesi del 1918, la situazione degli
imperi centrali si fece insostenibile: dal marzo al luglio del 1918, l'esercito
germanico tentò di sfondare le linee anglo-francesi con una nuova,
possente, offensiva verso Parigi, arrivando a minacciare di nuovo la capitale
francese, ma venne nuovamente fermato sulla Marna e lentamente respinto
indietro, finchè, costretto sulla difensiva, si trincerò
dietro la linea “Hindenburg”.
Gli italiani, a febbraio, rintuzzarono un tentativo
austroungarico sugli altopiani (battaglia dei tre monti) e a giugno (battaglia
del solstizio) resistettero bravamente sul Piave e sul Grappa all'ultimo
disperato assalto imperialregio.
Nell'ottobre del 1918, le truppe dell'Intesa ottennero
vittorie decisive su tutti i fronti: il 15 gli anglo-francesi sfondarono
la linea “Hindenburg”, mentre il 24 dello stesso mese, gli italiani passarono
il Piave nella vittoriosa battaglia di Vittorio Veneto.
Il 28 ottobre insorsero Cecoslovacchi e Polacchi,
l'1 novembre insorse la flotta austroungarica, il 3 scoppiò la rivoluzione
in Germania, il 9 venne proclamata la repubblica tedesca e il 12 quella
austriaca.
Era la fine di un mondo: il 4 novembre cessarono
le ostilità sul fronte italiano e l'11 novembre 1918, sul fronte
occidentale, fu stipulato l'armistizio di Compiègne.
La vecchia Europa era morta, insieme a circa sei
milioni di giovani europei: era finita la Grande Guerra.