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N. 48, GIUGNO 2000, completo di bibliografia tradizionale e di "sitografia".
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ALLA FRONTIERA ITALIANA
1. Lo scoppio della guerra
Abbiamo già detto delle ragioni che portarono
l'Italia ad aderire all'Intesa, e che, in sostanza, fanno riferimento alle
appetitose offerte territoriali messe sul piatto dalla diplomazia inglese
e francese, che portarono alla firma del patto segreto di Londra, del 26
aprile 1915, perciò non torneremo sull'argomento.
Questa nostra disamina, forzatamente molto succinta,
prenderà perciò le mosse dallo scoppio della guerra sul fronte
italiano, partendo, necessariamente, dalle condizioni in cui il nostro
Paese entrò in guerra.
Giova premettere che l'Italia, alla vigilia della
Grande Guerra, era ancora un paese diviso etnicamente e geograficamente,
le cui componenti si sarebbero conosciute e, forzatamente, frequentate
da vicino, proprio nelle trincee; a questo si aggiunga che l'idea di intervento,
di santità della guerra e di redenzione di Trento e Trieste era
sviluppata soprattutto nelle classi borghesi, mentre trovava piuttosto
indifferenti le vaste plebi contadine della Penisola.
Di fatto, perciò, fu la gioventù colta
e benestante che diede il maggior impulso alle manifestazioni antigiolittiane
della vigilia; e, per amor di verità, bisogna dire che fu anche
la classe sociale che pagò, in proporzione, il prezzo più
alto della guerra: i giovani ufficiali di complemento, nutriti di garibaldinismo
e di retorica patriottica, si fecero massacrare alla testa delle proprie
truppe nelle prime, sconsiderate, offensive di Cadorna, privando, in breve,
l'esercito di validi ufficiali subalterni.
Quando l'Italia entrò in guerra, il 24 maggio
del '15, il conflitto sui fronti occidentale ed orientale durava ormai
da quasi un anno; ciò nonostante, gli alti comandi italiani non
fecero affatto tesoro di quello che i tremendi massacri dei primi mesi
di guerra avevano insegnato sulla pericolosità delle armi automatiche,
sull'inutilità degli attacchi a ranghi serrati contro le trincee
ed i reticolati, sulla preparazione d'artiglieria: la regola unica del
nostro esercito pareva quella di attaccare, di “sfondare coi petti i reticolati”.
Certamente, l'assetto delle truppe italiane, almeno
fino alla fine del '17, non poteva che essere offensivo; tuttavia, i concetti
ispiratori di questo offensivismo, provenivano da un libretto edito dal
Cadorna dieci anni prima della guerra, che indicava le “direttive per l'attacco
frontale”, e che, per ragioni, diciamo così, anagrafiche, non teneva
punto conto di quanto successo negli ultimi dieci anni.
Lo stesso Cadorna, d'altra parte, si accingeva ad
andare in pensione, quando l'improvvisa morte del generale Pollio, Capo
di Stato Maggiore dell'Esercito (d'ora in poi, CSM), lo vide proiettato
al comando supremo, il 27 luglio del 1914; Pollio, per inciso, era stato
un obiettivo giudice delle nostre capacità militari, definendo più
volte “grandioso”lo sforzo che sarebbe stato necessario all'Italia per
mettersi alla pari delle altre potenze europee: questo sforzo sarebbe durato
quattro anni e sarebbe costato 650.000 morti.
Di fatto, all'Italia mancavano armi moderne: le
mitragliatrici inglesi Maxim arrivavano col contagocce, mentre le Fiat
uscirono di fabbrica dal maggio del'15 al ritmo di 50 al mese!
L'esercito italiano mancava dunque di quelle armi
automatiche che avevano fatto la differenza sul fronte francese: il 24
maggio del 1915 ne possedeva soltanto 618 per dieci corpi d'armata.
I grossi calibri d'assedio, se escludiamo le vecchie
ed usurate batterie da costa riattate, erano praticamente assenti, mentre
i calibri da campagna, piccoli e medi, erano spesso obsoleti pezzi ad affusto
rigido, di ghisa o, qualche volta, addirittura di bronzo, che dovevano
essere ripuntati dopo ogni colpo, e con cadenze di tiro da guerra napoleonica.
Le bombarde, tanto utili per spianare i reticolati,
entreranno in funzione dal 1916, così come gli elmetti in acciaio
di tipo 'Adrian', originariamente acquistati dalla Francia.
Insomma, il nostro Paese entrava in guerra con un
esercito disomogeneo, male armato e peggio comandato: c'erano tutte le
premesse per un disastro.
Se non che l'Austria –Ungheria (d'ora in poi, A.U.),
impegnata duramente dai Serbi e dai Russi, stava peggio di noi, almeno
per quel che riguarda le risorse umane, visto che alcune zone del fronte,
nel maggio del '15, erano del tutto sguarnite, o difese da reparti di anziani
territoriali della Landsturm; bisogna però dire che gli A.U. potevano
contare su di una linea difensiva vantaggiosissima, su di un buon numero
di ottime mitragliatrici Schwarzlose e su di un'artiglieria efficiente;
oltre che sul loro innato spirito bellicoso.
Tuttavia, se le nostre truppe avessero attaccato
vigorosamente durante la prima settimana di guerra, avrebbero trovato ben
poca resistenza tra loro e il cuore della monarchia danubiana; solo
che non attaccarono, e questo diede agli A.U. il tempo di fare affluire
truppe, di organizzare le difese, e di ottenere un consistente aiuto dall'alleato
germanico, che inviò il poderoso Alpenkorps del generale Krafft
von Dellmensingen nel Tirolo.
1.1 Curiosità
In un libello del 1914, un capitano di vascello
italiano, esperto d'artiglieria, ironizzò sulla notizia del possesso
di obici e mortai di calibro pesantissimo (42 cm.) da parte degli Imperi
Centrali, che definì “fantastica”; si dovette ricredere quando anche
sul fronte italiano cominciarono a piovere 420 da una tonnellata e mezzo:
questo la dice lunga sugli esperti del nostro Paese, di ieri e di oggi.
L'Italia non era ufficialmente in guerra con la
Germania nel 1915 (la dichiarerà il 9 agosto 1916), perciò
i soldati tedeschi, ufficialmente, non esistevano e si faceva finta di
non accorgersi dei loro morti e dei loro prigionieri; la prima prova della
presenza dell'Alpenkorps sul nostro fronte fu il ritrovamento da parte
di una pattuglia italiana di una cartolina in franchigia di un fante bavarese,
che il proprietario aveva usato per pulirsi dopo aver fatto i suoi bisogni
e poi aveva gettato: debitamente conservata, essa giunse al Q.G. italiano
in una busta.
2. Le spallate di Cadorna
Dopo Caporetto, i nostri soldati cantavano: “Il
general Cadorna è proprio un gran portento, con undici spallate
ha preso il Tagliamento!”.
L'amara ironia dei nostri fanti sintetizza perfettamente
il senso della gestione, a dir poco antieconomica in termini di vite umane,
della guerra da parte del generalissimo.
Immaginandoci che il fronte italiano sia stato come
una grande S rovesciata su di un fianco, appare chiaro che là dove
l'ansa affonda in territorio italiano (saliente trentino), le nostre truppe
dovettero assumere ben presto atteggiamento difensivo; e che, viceversa,
dove l'ansa si protende verso nord (saliente isontino) fu gettato il maggior
peso offensivo della guerra.
Da questa semplice considerazione di carattere geografico
nasce la teoria cadorniana delle “spallate”, ossia di una serie di offensive
che portassero gli A.U. a combattere con le spalle al muro: per capirne
appieno il senso, vi rinviamo a quanto scritto nel numero scorso sulla
guerra d'attrito.
Obiettivi di queste offensive erano, dapprima, la
valle della Drava, il campo trincerato di Gorizia e la destra Isonzo, e,
in proiezione, Villach, Lubiana e Trieste.
In pratica, però, gli attaccanti si trovavano
di fronte montagne altissime, su cui gli A.U. si erano trincerati abilmente,
oppure il terribile bastione rappresentato dal Carso.
Fin dalle prime scaramucce, si comprese che la tanto
vagheggiata guerra di posizione doveva lasciare il posto alle terrificanti
carneficine della guerra di trincea; e contro le trincee si lanciarono
per undici volte, dal giugno del'15 al settembre del '17, i disperati tentativi
della nostra fanteria, che, il più delle volte, si arenarono contro
reticolati intatti o contro lo sbarramento delle mitragliatrici.
Riassumendo, in estrema sintesi, le undici battaglie
dell'Isonzo furono:
I) 23giugno-7 luglio 1915 con obiettivo il M. Kuk
e la zona Oslavia-Podgora : progressi minimi con 15.000 perdite per gli
Italiani e 10.000 per gli A.U.
II) 20 luglio-3 agosto 1915, stessi obiettivi, cioè
la testa di ponte di Gorizia, progressi minimi, con 42.000 perdite per
gli Italiani e 50.000 per gli A.U.
III) 21 ottobre-4 novembre 1915, stessi obiettivi
da Plava al mare, in particolare Oslavia e il M. San Michele, con risultati
scarsi; perdite italiane 67.000, A.U. 42.000.
IV) 10 novembre-28 novembre 1915, stessi obiettivi,
dal Sabotino al mare, risultati insignificanti, con 49.000 perdite italiane
e 25.000 A.U.
V) 11 marzo-15 marzo 1916, stessi obiettivi (ma
in realtà sotto la spinta del II convegno interalleato, dopo Verdun),
nessun progresso; 2.000 perdite per parte.
VI) 4 agosto-16 agosto 1916, stessi obiettivi, conquista
della testa di ponte di Gorizia, notevole avanzata oltre Isonzo; perdite
italiane 51.000, A.U. 37.500.
VII) 14 settembre-17 settembre 1916 obiettivo il
carso yugoslavo verso Castagnevizza, progressi minimi, 21.000 perdite italiane
e circa 20.000 A.U.
VIII) 10 ottobre- 11 ottobre 1916, prosecuzione
della VII battaglia, 24.000 perdite per gli Italiani e 25.000 per gli A.U.
IX) 1 novembre-3 novembre 1916, di nuovo l'asse
Oppachiasella-Castagnevizza, con progressi interessanti in proiezione,
perdite italiane 34.000, A.U. 22.500
X) 12 maggio-26 maggio 1917, obiettivi i monti Kuk,
Santo, San Gabriele, San Marco e, verso Trieste, l'Hermada; creazione dei
presupposti per investire la Bainsizza e il Vallone di Chiapovano, perdite
italiane 112.000, A.U. 76.000.
XI) 17 agosto- 29 agosto 1917, obiettivi: la testa
di ponte di Tolmino, il Vallone, Bainsizza, San Gabriele, Ternova e valle
del Vipacco, conquista di una parte della Bainsizza, ma non del San Gabriele
e dei Lom di Tolmino, perdite italiane 143.500, A.U. 85.000
Apparentemente, come controparte di queste terribili
carneficine, non vi fu che la conquista di pochi chilometri quadrati di
territorio brullo, di cui l'Italia poteva largamente fare a meno; in realtà,
però, questa strategia aveva un suo senso.
Scrive, per esempio, Fritz Weber, artigliere nella
Grande Guerra e grande storico austriaco, che, alla vigilia di Caporetto,
le truppe imperiali erano talmente esauste e costrette a combattere col
vuoto alle spalle, da renderlo certo che un ulteriore attacco italiano
avrebbe, finalmente scardinato l'impianto difensivo della Isonzoarmee:
proprio per questo, come vedremo, si decise la XII battaglia dell'Isonzo,
quella che noi conosciamo col nome di Caporetto.
Quel che si contesta al Cadorna è, piuttosto,
l'ottusità con cui questo piano strategico venne perseguito: se
la guerra su tutti i fronti aveva dimostrato che gli attacchi avevano qualche
possibilità di successo solo se effettuati in una parte ristretta
di fronte, con un'unica breve e violentissima preparazione d'artiglieria,
e con uno scatto di piccoli gruppi di fanteria d'assalto (come avvenne
con successo nel caso del Sabotino, durante la VI battaglia, peraltro)
che aprissero la via ad una penetrazione massiccia, il CSM si ostinava,
invece, a fare eseguire attacchi su tutto il fronte, disperdendo le forze,
le artiglierie e perdendo l'effetto sorpresa.
Un esempio macroscopico di quanto scrivo fu rappresentato
dagli Arditi, specialità d'assalto, creata dal maggiore Messe e
che operò dal '17 in poi: questi combattenti, motivatissimi e superaddestrati,
venivano trasportati coi camion nei punti più caldi del fronte,
dove intervenivano di concerto con le artiglierie, avanzando durante l'allungamento
dei tiri di distruzione, fino a conquistare le trincee ed i capisaldi,
in cui sorprendevano i nemici, che non avevano ancora lasciato i ricoveri;
di solito essi venivano utilizzati a compagnie o, al massimo, a Reparti
(circa l'equivalente di un battaglione), ma ottenevano risultati che non
si erano ottenuti precedentemente con un enorme dispendio di vite (S.Gabriele,
Col Moschin).
Nonostante tali e tante ragioni che avrebbero dovuto
convincerlo della assurdità delle sue convinzioni, Cadorna continuò,
fino a quando non venne sostituito al comando, il 9 novembre del '17, a
lanciare divisioni su divisioni contro ostacoli insormontabili, gettando
le premesse della grande crisi che l'esercito attraversò quando
più avrebbe dovuto essere saldo.
Di più: Cadorna, a disastro avvenuto, non
trovò di meglio che accusare di tradimento truppe del tutto incolpevoli
(anche se, dopo il primo comunicato dell'agenzia Stefani, corresse il tiro),
minimizzare per quanto possibile l'accaduto, e continuare a sostenere la
bontà del suo operato nei numerosi memoriali che produsse e pubblicò.
Quanto costarono alle generazioni nate tra il 1880
ed il 1898 le teorie di Cadorna è testimoniato dai terribili monumenti
dedicati a quel sacrificio: Oslavia, Redipuglia, Castel Dante, Asiago,
Monte Grappa, Pian delle Fugazze, Pocol, Salesei, Caporetto…
2.1 curiosità
Enrico Toti, medaglia d'oro al valor militare, immortalato
in divisa da bersagliere da una tavola celeberrima di Beltrame mentre,
privo di una gamba, lancia la stampella contro il nemico, non era affatto
un bersagliere, e nemmeno un soldato.
Egli aveva perso la gamba anni prima in un incidente
sul lavoro, e da allora campava girando il mondo con una bicicletta senza
un pedale, esibendosi come fenomeno da baraccone.
Essendo un originale, si fissò nella volontà
di partecipare alla guerra, e divenne una specie di mascotte delle truppe,
tanto che gli fu data anche una divisa, ma senza mostrine, e con la raccomandazione
di non stare in prima linea durante le azioni.
Nel 1916, ormai popolare tra i combattenti del Carso,
pare si fosse sporto ad insultare il nemico, alcuni dicono ubriaco, e un
cecchino lo centrò.
Il resto è pura invenzione pubblicitaria.
3. Caporetto
Ancora oggi, a 83 anni di distanza, ci si interroga
sulle ragioni che portarono al disastro di Caporetto: come fu possibile
che un esercito temprato ormai da due anni e mezzo di guerra spaventosa,
con una massa d'artiglieria possente e per la maggior parte incavernata,
con in prima linea sulle direttrici dell'attacco sei robusti corpi d'armata
(II, VIII, XXVII, IV, VII e XXIV) e, soprattutto, con in mano i piani dettagliati
dell'offensiva avversaria, forniti da ufficiali disertori romeni, nei quali
cui si indicava perfino l'ora dell'inizio del fuoco di distruzione, abbia
ceduto di schianto in modo così impressionante?
Le ragioni, come vedremo, sono diverse; ma, prima,
è necessario chiarire che Caporetto non fu l'unico o il più
terribile disastro patito da un esercito durante la Grande Guerra (si pensi
all'Aisne, alla Somme, a Tannenberg, a Gallipoli ): un gusto tutto italiano
di esaltare le proprie magagne, da un lato, e l'enfasi che fu data all'estero
alla sconfitta (e all'importanza, enormemente sopravvalutata, degli aiuti
anglo-francesi all'Italia), che gettò le basi per la cosiddetta
“vittoria mutilata”, dall'altro, crearono l'iperbole di Caporetto.
Già nella conferenza interalleata di peschiera,
l'8 novembre del '17, si diceva che l'esercito avrebbe potuto resistere:
esiste perfino un appunto del maresciallo francese Foch in cui si sottolinea
che la sola 2a armata dovesse considerarsi perduta.
Peccato che, in quella stessa conferenza, i nostri
alleati ribadirono la loro intenzione di “preservare” le proprie truppe
sul fronte italiano: un gran bel sistema di fare la guerra; soprattutto
se pensiamo ai garibaldini delle Argonne , o alle migliaia di morti italiani,
caduti a Bligny per difendere la Francia!
Ma veniamo ai fatti, che, per ragioni di spazio,
dovremo sintetizzare al massimo.
Nella seconda metà del 1917, l'esercito russo
non aveva praticamente più capacità bellica: questo permise
ai germanici di sottrarre al fronte orientale un cospicuo numero di divisioni.
Date le pressanti richieste del nuovo imperatore
d'Austria, Carlo, che continuava a domandare aiuti al Kaiser, fu creata
un'armata, agli ordini del valentissimo generale Von Below, allo scopo
di ricacciare gli Italiani sulle posizioni del 1915.
L'impresa di giungere al Tagliamento, pareva impossibile,
tant'è che lo stesso generale Boroevic commentò l'intenzione
espressa dai comandi tedeschi con un eloquente: “Non ci riuscirete mai!”;
tuttavia, l'operazione fu preparata con grande cura e dispiego di mezzi,
portati in linea lungo le strette e tortuose rotabili di Vrsic e Most na
Soci, o per mezzo della ferrovia che collega Jesenice a Tolmino.
Per aprire la strada agli attaccanti nella conca
di Plezzo, fu fatto arrivare al fronte anche uno speciale battaglione lanciagas,
che piazzò centinaia di tubi lanciagranate sulle pendici del Ravelnik,
di fronte alle linee italiane: i reparti che Cadorna additò al pubblico
disprezzo, accusandoli di resa al nemico, erano, in realtà stati
sterminati dal gas mostarda; i “traditori” di Plezzo erano caduti al loro
posto, dal primo all'ultimo!
La mattina del 24 ottobre 1917, l'alta valle dell'Isonzo
era piena di nebbia, ed il tempo era freddo e piovoso.
Nonostante che conoscessero l'ora dell'inizio dei
tiri nemici, gli artiglieri italiani restarono silenziosi, quando una valanga
di fuoco si abbattè sulle prime linee e poi avanzò a sconvolgere
le retrovie: il CSM era stato chiarissimo, quando aveva intimato di non
sparare fino a che ciò non venisse esplicitamente ordinato.
Solo che, sotto un simile uragano di ferro, le linee
telefoniche saltarono subito; i segnali ottici non servirono a nulla nella
nebbia e nel fumo, e i portaordini non portarono nessun ordine, per la
semplice ragione che morirono quando cercarono di attraversare la cortina
di sbarramento.
In realtà, il tiro di contropreparazione
sarebbe dovuto iniziare prima e non dopo quello austrotedesco (il che,
quando accadde, come nella battaglia del Solstizio, azzerò le possibilità
di successo dell'attacco), dato che tutte le informazioni indicavano un
ammassamento di truppe d'assalto assai a ridosso della prima linea e, quindi,
poco protette da un efficace sbarramento d'artiglieria: prevalse la paura
del siluramento, più forte di qualunque altra considerazione logica
o strategica.
Badoglio, sempre lui, dopo che fu il principale
esecutore dell'ordine di Cadorna che imbavagliò le artiglierie,
fu per buona pezza irreperibile; Capello, dopo giorni di farneticazione
su controffensive strategiche, si diede malato, e gli austrotedeschi
passarono.
A Caporetto c'era (sembra incredibile) un solo ponte
sull'isonzo; e fu fatto brillare anzitempo, condannando intere divisioni
alla cattura.
I cannonieri del Kolovrat e del Matajur videro truppe
incolonnate che percorrevano a ritroso la valle, in direzione Caporetto;
l'eventualità che si trattasse di nemici apparve loro tanto inverosimile
che li lasciarono passare: da tanto lontano era facile confondere il grigioverde
col feldgrau!
Nel frattempo, il comandante di quel corpo d'armata,
generale Bongiovanni, nemmeno sapeva che le sue truppe erano impegnate
in combattimento!
Per farla breve, gli austrotedeschi dilagarono per
la val Natisone e la valle dell'Isonzo, in mezzo a resistenze eroiche e
a grottesche inadempienze dei comandi: Cadorna scriveva alla Stefani il
comunicato infame di cui ho già detto, e il Colonnello Gatti, suo
biografo, scriveva nel suo diario: “E' un sogno!”.
Si retrocedette la linea al Tagliamento, che, per
fortuna, era in piena e ritardò l'avanzata delle divisioni Edelweiss
e Jaeger tedesche, poi, al Piave, in una ritirata a tratti ordinata ed
a tratti apocalittica; il generale Di Giorgio, quello dell'Ortigara, comandò
un gruppo speciale, che coprì la ritirata e ci salvò dal
disastro totale.
Sul Piave e sul Grappa (dove le truppe del neodecorato
'Pour le mérite' tenente Rommel, conquistatore del Matajur, ebbero
modo di spuntarsi le corna contro i battaglioni alpini), sulle Melette
e sui tre monti, nell'altopiano dei Sette Comuni, si combattè una
terribile battaglia d'arresto, che durò, in pratica, fino al febbraio
del 1918; ma, alla fine, l'esercito si consolidò, e la bilancia
cominciò a pendere dalla nostra parte: paradossalmente, il nuovo
fronte significava linee di rifornimento più facili, lunghezza delle
linee molto inferiore; e, soprattutto, un poderoso stimolo per l'innata
combattività che dimostrano gli Italiani quando combattono per difendere
le proprie case (ricordate Legnano o Fornovo?), trasformando gli sfiduciati
reduci di Caporetto in un'armata ferocemente determinata a resistere.
Ora, i soldati non cantavano solo “Il general Cadorna…”:
cominciava a diffondersi un'altra canzone il cui ritornello parlava del
Piave che mormorò “non passa lo straniero”; e lo straniero, stavolta,
non passò.
Era finita la XII battaglia dell'Isonzo: ci era
costata 10.000 morti, 30.000 feriti, 300.000 prigionieri, 350.000 sbandati
e disertori, 3.152 cannoni, 1.732 bombarde, 5.000 mitragliatrici; l'esercito
italiano, tra il Brenta e il mare, poteva contare su non più di
300.000 uomini!
Ma erano uomini che la tragedia di Caporetto aveva
profondamente cambiato.
VI INTERESSANO I TESTI DELLE CANZONI DELLA 1a GUERRA MONDIALE?
La guerra, in particolar modo per la 1a, la 4a armata
e le truppe del settore Carnia, si combattè quasi interamente in
montagna, con quote variabili tra i mille ed i quasi quattromila metri
(Marmolada, Ortles, Gran Zebrù, Cevedale, Adamello) e temperature
invernali intorno ai trenta gradi sottozero.
Se a questo si aggiunge che i due inverni, 1915-16
e 1916-17, furono caratterizzati da straordinarie precipitazioni nevose
e da un clima più freddo della media del secolo, ci si renderà
immediatamente conto delle condizioni terribili in cui si trovarono a combattere
i soldati degli opposti schieramenti.
Non si può, perciò, capire fino in
fondo il dramma della Grande Guerra se non si tiene conto anche delle decine
di migliaia di morti per valanga, degli assiderati, dei congelati e delle
inenarrabili sofferenze di uomini costretti a sopravvivere, prima ancora
che a combattere, in un ambiente ancora oggi proibitivo.
I protagonisti tradizionali di questi epici scontri,
che, nonostante l'utilizzo di masse umane assai inferiori a quelle delle
grande battaglie isontine e carsiche, ebbero grande risonanza per l'alto
valore alpinistico di alcune imprese e per la temerarietà di ogni
iniziativa offensiva, furono, da una parte, gli Alpini e, dall'altra i
Tiroler Kaiserjaeger (TJR), tradizionali rivali di quasi tutte le battaglie
sui monti.
Questi due corpi ebbero, e mantengono ancora, un
grande rispetto reciproco, memoria dei mille gesti cavallereschi intercorsi
tra loro in tempo di guerra: da questa solidarietà, che accomuna
i soldati della montagna, è addirittura nata un'istituzione, emanazione
dell'A.N.A., che raduna tutti i soldati di montagna del mondo, l'IFMS.
Sarebbe, tuttavia, sbagliato pensare che soltanto
gli Alpini ed i TJR siano stati protagonisti delle azioni di questa parte
di fronte: fanti, bersaglieri, granatieri, da parte italiana, honvèd,
kaiserschuetzen, fanteria, landsturm, da parte austroungarica, insanguinarono
le montagne della lombardia, del trentino, del veneto e del friuli, al
pari dei loro più attrezzati commilitoni delle truppe da montagna.
Indichiamo, ora, con la solita estrema sintesi cui
lo spazio ci costringe, i principali settori del fronte che furono interessati
dalla guerra in montagna:
1. Settore Valtellina: teatro di scontri assai modesti
sul piano strategico e con truppe molto limitate (pattuglie, plotoni, compagnie),
ma caratterizzato da imprese straordinarie per lo scenario di altissima
quota in cui si combattè (zona dello Stelvio, Gran Zebrù,
Ortles, Cevedale);
2. Settore Valcamonica: ruotava sul massiccio Adamello-Presanella
(con quote superiori ai 3.000 metri), che ospitò masse di uomini
anche notevoli e vide tentativi di attacchi in massa, purtroppo quasi sempre
risoltisi in carneficine (Fargorida, Cavento); andava dal passo del Tonale
alle valli Giudicarie;
3. Settore Val Lagarina: dalle valli Giudicarie
a Rovereto, con quote sensibilmente più basse delle precedenti,
ma pur sempre intorno ai 2.000 metri (Altissimo, Baldo, Coni Zugna), vide
un notevole impiego di fanterie da parte dei due schieramenti;
4. Settore Altipiani: vide l'utilizzo di grandi
masse di uomini, in operazioni di vasta portata (Strafexpedition, Operazione
K, battaglie d'arresto dopo Caporetto); nel sottosettore di Lavarone e
Folgaria (val Terragnolo, val d'Astico)vide, nella prima fase della guerra,
notevoli scontri di artiglierie tra i forti delle due parti, che dominavano
la parte occidentale dell'altipiano dei Sette Comuni.
5. Settore Cordevole: zona di montagne con quote
non elevatissime, ma con scenari dolomitici molto aspri, si estendeva fra
le Pale di San Martino e il Pelmo.
6. Settore Cadore: scenario delle più note
battaglie dolomitiche, andava originariamente dalla val Boite alle sorgenti
del Piave: di qui gli italiani mossero per conquistare uno sbocco verso
il Tirolo austriaco e la valle della Drava. Non vi furono grandi ammassamenti
di truppe, tuttavia si verificarono scontri anche di un certo rilievo
7. Zona Carnia: interessava la zona Comelico, Peralba,
valle Uccea, con uno scenario montano aspro e carsico ed un notevole utilizzo
delle fanterie;
8. Alpi Giulie: montagne brulle e quasi del tutto
prive di acqua, con quote intorno ai 2.000 metri, ma anche superiori (Rombon,
M.te Nero, Jof Fuarte, Montasio); furono interessate direttamente dalla
XII battaglia dell'Isonzo, che vide spesso l'isolamento dei reparti che
tenevano le posizioni più elevate.
I fatti d'arme più importanti che interessarono
questa parte di fronte avvennero tutti nella zona degli altipiani (CTA),
e videro gli opposti schieramenti fronteggiarsi in battaglie, ora difensive
, ora offensive, che si combattevano ciclicamente sulle stesse posizioni.
Il 15 maggio del 1916, dietro le pressioni del maresciallo
Conrad, due armate a.u., l'XI e la III, appoggiate da un migliaio di cannoni,
scatenarono tra Adige e Brenta una poderosa offensiva, allo scopo di sfondare
le difese italiane della zona altipiani e sfociare nella pianura vicentina;
l'offensiva, che era nota a tutti ufficiosamente come “Strafexpedition”,
cioè 'spedizione punitiva', mirava anche a punire l'Italia per il
suo tradimento della Triplice Alleanza (e bisogna ammettere che gli A.U.
non avevano proprio tutti i torti ad essere infuriati con noi!),e aveva,
perciò, una valenza emotiva non comune.
In un mese (15/5-16/6), le truppe a.u. occuparono
praticamente tutto l'altopiano dei Sette Comuni: resisteva soltanto una
sottile linea sul bordo meridionale dell'acrocoro, in corrispondenza di
rilievi divenuti leggendari per la granitica resistenza italiana: il Pasubio,
il Priaforà, il Cengio, il Lemerle, lo Zovetto, il Fior.
Molte di queste cime precipitavano a strapiombo
sulla pianura; e molti dei loro difensori, esaurite le munizioni, precipitarono
nel vuoto, avvinti ai soldati nemici, in un disperato corpo a corpo.
Questa resistenza non fu vana: la sera del 16 giugno
il C.S. austriaco ordinava di passare alla difensiva; la Strafexpedition
era finita.
Subito, gli Italiani contrattaccarono, approfittando
dell'arretramento tattico del nemico: il 24 luglio, riconquistate Asiago
ed Arsiero, la linea si stabilizzò sui caposaldi rappresentati dai
monti Majo, Cimone, Zebio e da cima Caldiera.
Il 10 giugno del 1917, circa 300.000 italiani attaccarono
le linee a.u. sugli altipiani, mirando all'immediata conquista dei monti
Zebio ed Ortigara, allo scopo di scardinare le difese nemiche e costringere
gli A.U. a calare in Val Sugana.
L'azione fu dispersa in mille rivoli e mal condotta:
non si tenne conto delle avverse condizioni climatiche, né si arrestò
l'attacco dopo i primi, terrificanti, massacri.
In quella che fu nota al mondo come battaglia dell'Ortigara,
durata fino al 26 giugno, le perdite italiane, paragonabili a quelle di
una battaglia isontina, avvennero per la maggior parte in 2 km di fronte:
28.000 uomini, tra cui 22 battaglioni alpini, pressochè distrutti.
In quell'inferno inimmaginabile, i valorosi fanti
della brigata Regina urlavano: “Ridateci il Carso!”; eppure, l'Ortigara
fu presa, anche se per pochi giorni e senza alcuna possibilità di
avanzare sugli obiettivi strategici.
Se mai esisterà un simbolo della canaglieria
e della stupidità dei generali 'vej Piemont', quello è la
montagna maledetta, che, monumento terribile, domina il vallone dell'Agnellizza,
cupa e senza un filo d'erba.
Il 27 gennaio 1918, più o meno dalla stessa
linea di massima penetrazione della Strafexpedition, raggiunta dopo Caporetto
dagli A.U., nel corso della battaglia delle Melette, gli Italiani scattarono
per riconquistare i monti Valbella, Col del Rosso ed Echele, riuscendo
nell'intento il 31/1: questa vittoria ebbe un'importanza particolare, perché
fu la prima vittoria italiana dopo il grave rovescio isontino.
In seguito, i tre monti saranno persi e di nuovo
ripresi, aggiungendo morti ai morti.
Per ragioni di spazio, sorvolo sul glorioso
(da entrambe le parti) intermezzo del M.Grappa, perno di tutto il nostro
dispositivo difensivo, che vide la resistenza italiana per tutto l'inverno
e tutta la primavera successivi a Caporetto: spero mi si scuserà,
e prometto che, alla prima occasione dedicherò al Grappa qualche
pagina monografica.
4.1 curiosità
Le prime truppe alpine utilizzate a spizzichi sulle
altissime quote dell'Adamello, avevano, in parte, ancora le divise della
guerra di Libia, che, come facilmente si può immaginare, erano del
tutto inadeguate ad una primavera a 3.500 metri.
Alcune tra le montagne che furono contese sanguinosamente
per tutta la guerra, furono abbandonate agli A.U. proprio all'inizio delle
ostilità, con macroscopici errori strategici, che costarono sforzi
immani per la loro riconquista, che non sempre ci fu (Scorluzzo, P.sso
Paradiso, Colsanto).
5. Dal Piave a Vittorio Veneto
Il 15 giugno 1918, iniziava la battaglia del Solstizio,
o, meglio, l'operazione Albrecht.
Gli A.U. dovevano sfondare il fronte italiano, per
ottenere una pace favorevole, mentre la monarchia si stava sfaldando sotto
la spinta dei nazionalismi e della crisi economica; così attaccarono
al Tonale (operazione Lawine), sui soliti altipiani e sul Grappa (operazione
Radetzky) e sul Piave (operazione Albrecht, appunto).
L'esercito che stava loro di fronte, però,
era un esercito riarmato con mezzi più moderni, con facili vie di
rifornimento e con reparti ricostituiti grazie all'afflusso delle giovani
reclute della classe 1899; anche il morale era alto, e, inoltre, gli Italiani
detenevano il dominio quasi incontrastato dei cieli.
Tuttavia, all'inizio, l'attacco a.u. penetrò
nei territori di là dal Piave, creando una grossa testa di ponte
nella zona del Montello (una specie di bassa collina sedimentaria), preoccupando
gli alti comandi (nuovo CSM era Armando Diaz), fino a raggiungere, il 20/6,
il punto di massima penetrazione.
Risultati anche meno rilevanti si erano ottenuti
nel basso Piave.
Il 23 giugno, pressati dalle notizie da Vienna e
dal contrattacco italiano, gli A.U. avevano già ripassato il Piave:
l'ultimo ruggito della monarchia bicipite si era concluso con un nulla
di fatto, se escludiamo la perdita di 50.000 uomini; ora era solo questione
di tempo.
Per gettare le basi di un passaggio vittorioso del
fiume sacro alla Patria, gli Italiani, con un'azione durata cinque giorni,
tra il 2 ed il 6 di luglio del 1918, riconquistarono il delta del Piave;
seguì un interludio , che durò fino ad ottobre.
Il 24 ottobre, ad un anno esatto da Caporetto, oltre
3.500 cannoni aprirono il fuoco, dal Brenta all'Adriatico: era la battaglia
finale di una guerra senza esclusione di colpi.
Dopo qualche difficoltà iniziale, gli italiani
riuscirono a sfondare in molti punti, mentre l'VIII armata di Caviglia
e di Lord Cavan puntava su Vittorio Veneto.
Per l'A.U. era il crollo: mentre le truppe più
fidate (in particolare quelle tedesche) resistevano disperatamente sul
Grappa e sugli altipiani, Sloveni, Bosniaci, Croati, Cecoslovacchi e, in
parte, Ungheresi, abbandonarono la lotta, iniziando un enorme esodo di
ripiegamento.
Naturalmente, l'Italia voleva conquistare quanto
più territorio possibile, prima del cessate il fuoco, in modo da
presentare al tavolo delle trattative una conquista di fatto (cosa
fatta capo ha), che difficilmente sarebbe stata messa in discussione: per
questo si potè assistere al bizzarro spettacolo di truppe a.u. ancora
in piena efficienza, che risalivano le valli alpine, superate dalle avanguardie
italiane, che correvano verso il Brennero, senza minimamente disturbarsi
a vicenda.
Sempre per questo motivo, il capitano a.u. Ruggera,
che si era presentato con la proposta di resa alle linee italiane di Serravalle
all'Adige già il 29 ottobre, assistette ad una incredibile sequenza
di tergiversazioni diplomatiche, atte a guadagnare tempo prezioso (i soldati,
nel frattempo, risalivano le valli).
Lo stesso fu per la commissione ufficiale d'armistizio,
comandata dal generale Weber.
Soltanto alle 18 del 3 novembre 1918, dopo una ridda
di aggiustamenti e di cambi di programma, tra Vienna, Roma e Baden, a Villa
Giusti venne firmato il protocollo d'intesa dell'armistizio, che prevedeva
la cessazione di ogni atto ostile da entrambe le parti entro le ore 15
del giorno successivo.